Lei scrive che il fulcro dell’arte di suo padre Mario, celebre e autorevole psicoanalista junghiano, non erano le teorie dei libri ma la presenza fisica, il vis a vis con le anime ferite. Vorrei chiederle, Emanuele Trevi: suo padre si è mai occupato della sua anima? Dell’anima ferita del figlio?
"No. I medici non curano mai i propri familiari". Nel suo ultimo libro La casa del mago (Ponte alle Grazie), Emanuele Trevi si ritrova ad abitare nell’appartamento del padre morto a 87 anni. Da lì parte il racconto della relazione con lui, e molto altro. Intanto fin dall’inizio veniamo a sapere che lo psicoanalista "poteva essere adorabile" ma si rifugiava, "per riacquistare la propria autonomia, quella sovranità su se stessi sempre insidiata dal prossimo", in un una specie di “retrobottega mentale“. Al lavoro era il mago capace di guarire le anime ferite; in presenza degli altri – e si presume pure dei figli – di Mario rimaneva l’involucro ma lui chissà dov’era. Quando Mario decide di andare con Emanuele bambino a Venezia, la madre preoccupatissima raccomanda al figlio di portarsi dietro ovunque la saponetta dell’hotel perché sopra l’incarto c’è scritto l’indirizzo: "Lo sai com’è fatto tuo padre" ripete la donna al figlio: va seguito sempre perché lui è Colui Che Non Si Volta. E quando il figlio a Venezia ovviamente si perde, a salvarlo sarà la saponetta, non il suo babbo.
Ma suo padre non è mai chiesto che traumi poteva causare in lei, bambino, comportandosi così?
"Non lo so, come spiego nel libro io non lo conoscevo molto bene. Non ho proprio idea di cosa pensasse di me. Però gli stavo simpatico".
Dopo che suo padre è morto, lei lo incontra in un sogno in cui lui le dice "basta malinconia, devi trovare un’altra parola". Il fatto che glielo dica in sogno è importante come se glielo avesse detto in vita?
"Non lo so. Lei mi fa una domanda come se stessimo parlando di un romanzo. C’è differenza tra caso e destino e in letteratura il destino è un burattinaio. Il caso è più problematico e infatti crea delle narrazioni più sfilacciate. In realtà è successo tutto così come lo spiego nel libro: io non ho una grande capacità di finzione, io scrivo con quello che passa il convento, non ho capacità narrative, non so neanche raccontare una barzelletta. Il libro è autofiction e se fai autofiction devi stare ai fatti. Io non ho mai avuto conflitti con mio padre, mi piaceva molto, mi divertiva. Il libro è il ritratto di un uomo misterioso, insomma il ritratto di un uomo di cui è impossibile fare un ritratto. Non perché fosse antipatico o non fosse buono. Mio padre era indipendente".
Un messaggio di suo padre è che "solo ciò che accade due volte possiede un significato magico e arcano".
"Sì, mi ha colpito molto e ho deciso di metterlo nel libro come una specie di epigrafe".
Più di un’epigrafe. Nella Casa del mago torna centrale la questione della necessità di nascere due volte. La seconda nascita avviene quando riusciamo ad accogliere l’oscurità, a frequentare, includere le ombre (dell’inconscio), "i tesori del buio"...
"Un tema iniziatico. La seconda nascita è proprio “il“ tema dei riti di iniziazione, in tutte le civiltà arcaiche. In fondo anche il battesimo, per i cristiani, è una seconda nascita. È un tema che mi interessa molto, è il tema di tutte le cose che scrivo perché il venire al mondo è come insufficiente, no? Bisogna poi trovare la possibilità di rinascere. Venire al mondo è un destino biologico, rinascere lo trasforma in una scelta. Non che il destino biologico sia spregevole di per sè, ma rinascere è completare il venire al mondo. Mentre sulla nascita in sé non ho niente da dire. Insomma, non lo so perché sono al mondo".
Tra "gli spettri vivi nell’infinito groviglio dei capricci degli dei" e l’autoironia, e personaggi teneri e picareschi, la Casa del mago è disseminata di misteri: una continua fonte di domande in cerca di risposte...
"È frustrante enunciare un mistero e non dare la chiave. Due libri di due maestri che ho letto di recente, Annientare di Houellebecq e Il passeggero di Cormac McCarthy sono basati entrambi su un mistero, addirittura spionistico in Houellebecq. Ed entrambi a un certo punto è come se forse si dimenticassero del mistero iniziale... Forse è una tendenza della contemporaneità, forse viviamo in una tale aggressione della verità, con le famose fake news, che lasciamo cadere la soluzione. È come se fosse un fatto filosofico: è la percezione che comunque ormai non veniamo più a capo di niente, no?".
Però una risposta che dà sollievo al dolore della vita lei la dà: è racchiusa in una delle pietre che sue padre collezionava e ripuliva del “prima“ e del “dopo“. È l’attimo in cui "splende intatta la realtà". Per dirla con lo Jung dell’I Ching – che lei cita rappresentando suo padre nel’esagramma 61, La veracità intrinseca, vuoto del cuore, umiltà necessaria per attrarre il bene – è riuscire a vedere l’"istante che contiene il totale". La felicità è raggiungerlo, quell’attimo fuggente, o riuscire a lasciarlo andare?
"Beh, l’attimo se ne va comunque. Anche se volessi trattenerlo come farei? È proprio tipico del finale, no? E non parlo solo del libro. Forse il più grande dolore della vita è che non possiamo trattenere il tempo nel momento in cui è felice, perché poi tutto dipende da lì: tutto il male viene dal tempo. Una settimana fa non c’era la guerra in Israele e adesso c’è. Possiamo tornare a un punto più vantaggioso? No. Il tempo porta rogne".
E come si viene a patti con questo?
"Ci ho pensato spesso. L’unica forma, diciamo così tra molte virgolette, di saggezza che sono riuscito a elaborare nella vita, è pensare che la vita non non è fatta per noi. Molto del carattere insensato che attribuiamo alla vita è dovuto al fatto che il mondo non è stato inventato per noi. Non è a nostra misura".
È per questo che, come scrive citando il maestro di suo padre Ernst Bernhard, finiamo dentro la buca dell’infelicità. Non importa se a metterci in mano la vanga siano stati i nostri genitori. Nella buca ci siamo. Ed è allora che c’è bisogno di un mago che ci aiuti a uscirne?
"Ellenberger spiega che, dagli aborigeni australiani a Freud, ciò che conta più della tecnica è la positività della relazione che si stabilisce con chi ha bisogno. Sei nella buca? Importa poco o niente speculare sul come o perché ci sei finito. Non serve. L’importante è trovare la maniera di risalire. Rivedere il cielo. L’importante è che questa buca non sia completamente oscurata dall’io".
O dal pensiero della morte...
"Io cerco di pensarci il meno possibile, invecchiando devo dire che invece ci penso tantissimo. Prospero alla fine della Tempesta dice: ora torno a Milano e un pensiero su tre sarà sulla morte. Io sono arrivato a due, tre, almeno, insomma. A volte ironicamente, a volte con angoscia".
E a cos’altro pensa?
"Che adesso voglio scrivere una storia d’amore. Voglio fare questo tentativo".