Mercoledì 24 Aprile 2024

Miller e le altre: la guerra fotografata dalle donne

La musa di Man Ray immortalò la vasca di Hitler, Gerda Taro morì schiacciata da un carro armato in Spagna: la mostra di Parigi

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di Giovanni Serafini

"Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico". Questa frase di Oriana Fallaci potrebbe essere l’introduzione migliore alla mostra Femmes photographes de guerre, inaugurata a Parigi (fino al 31 dicembre) al Musée de la Libération. L’autrice de Il sesso inutile e Penelope alla guerra aveva anticipato i tempi e ribaltato stereotipi secolari, a cominciare da quelli che riguardano i reportages e le cronache di guerra, puntualmente affidati a identità maschili. Come se la donna fosse inadatta a parlare di argomenti tanto virili…

Resta il fatto che da Robert Capa a Nick Ut – dalla famosissima foto del repubblicano colpito a morte durante la guerra civile del 1936 in Spagna, a quella altrettanto “storica” della bambina nuda bruciata dal napalm in Vietnam nel 1972 – sono sempre stati reporter e giornalisti uomini a testimoniare le atrocità belliche. Oggi invece – lo vediamo in particolare in occasione dell’aggressione russa dell’Ucraina – sono soprattutto le donne a raccontarci in televisione e sui giornali quel che accade al fronte e nelle città devastate dalle bombe.

Qual è il loro sguardo sulla guerra? È diverso da quello dei giornalisti maschi? Esiste a questo proposito una sensibilità specificamente femminile? È a queste domande che vuole rispondere la mostra parigina, presentando il lavoro di otto donne reporter di guerra, da Lee Miller a Christine Spengler, dagli anni Trenta ad oggi. "Le loro fotografie – spiegano Sylvie Zaidman, direttrice del Musée de la Libération, e le due commissarie della mostra Felicity Korn e Anne-Marie Beckmann – sono esemplari perché più di molte altre ci mettono di fronte al destino degli individui prigionieri dell’ingranaggio della Storia. La loro caratteristica è che si pongono in sintonia immediata con i familiari delle vittime, donne, bambini, anziani. Ci offrono testimonianze dirette, commoventi, autentiche che affiorano dalle profondità dell’anima, senza sovrastrutture, né messinscene, né finzioni".

Con l’aiuto di un centinaio di fotografie e di una serie di giornali e settimanali originali, la mostra racconta il destino di otto donne reporter di guerra molto diverse fra di loro.

La prima è Lee Miller, americana nata nel 1907: una figura affascinante, musa di Man Ray, icona degli intellettuali fra le due guerre. Era sbarcata a Parigi a 18 anni per studiare teatro e storia dell’arte, poi era diventata mannequin e aveva stretto legami con i grandi artisti dell’epoca, da Cocteau a Picasso, fino a quando decise di abbandonare quel mondo troppo glamour per vestire l’uniforme dell’esercito Usa. Assunta da Vogue, marciò con una Rolleiflex a tracolla lungo le strade dell’Europa dilaniata dalla guerra. Fotografò gli orrori di Buchenwald e Dachau, la disfatta dell’esercito tedesco, l’appartamento a Monaco di Hitler, perfino la vasca da bagno del Fuhrer, nella quale non esitò a entrare – magnifica rivincita – per farsi fotografare nuda…

Seconda fotografa della lista, la leggendaria Gerda Taro, nata in Germania nel 1910, emigrata a Parigi nel 1933, morta in Spagna nel 1937, schiacciata a 26 anni da un carro armato: fu la prima fotografa di guerra uccisa al fronte, un’artista grande quanto Robert Capa, che fu il grande amore della sua vita troppo breve. Memorabili i suoi cliché che ritraggono l’armata repubblicana, i corpi distesi nella morgue, gli scontri della guerra civile e soprattutto l’immagine simbolica che mostra il profilo di una donna con la pistola in mano sullo sfondo di un cielo nuvoloso.

Altri personaggi indimenticabili sono la francese Catherine Leroy (1944-2006), che coprì la guerra del Vietnam dal 1966 in poi e venne fatta prigioniera dai Vietcong. Sempre in Vietnam, ma anche nel Ciad, in Irlanda, nel Sahara occidentale, in Cambogia, in Afghanistan e in Iraq lavorarono rischiando ogni giorno la vita le francesi Christine Spengler e Françoise Demulder. La vita la perse davvero, invece, la tedesca Anja Niedringhaus, assassinata a 48 anni da un fondamentalista islamico durante un reportage in Afghanistan.

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