Merenda con grinta: "Io, il più duro dei duri"

L’attore francese volto del poliziesco italiano anni ’70: "Bei ricordi e nessun rimpianto. Resto un solitario, mai sceso a compromessi"

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di Giovanni

Bogani

"Che cosa ho fatto di buono nella vita? Sono rimasto me stesso. Non sono mai cambiato per far piacere a qualcuno, non sono andato alle cene per lusingare un regista; sono sempre rimasto un solitario". Francese con origini italiane, cresciuto fra la Francia e gli Stati Uniti, arrivato a Roma nei ’70 quasi per caso, Luc Merenda è stato il solitario che ha anche lavorato con Steve McQueen, con Alain Delon, con il cantante Jacques Brel, persino col pugile che frantumò Nino Benvenuti, Carlos Monzon. Ma soprattutto, con un impermeabile e una pistola, è stato il più fascinoso commissario del cinema poliziesco italiano anni ’70: Sergio Martino lo diresse in Milano trema: la polizia vuole giustizia, in La città gioca d’azzardo, in La polizia accusa, il servizio segreto uccide. Un cinema duro, secco, violento, carnale, amaro, col colpo sempre in canna, a cui lui prestava il suo volto bello, lo sguardo magnetico.

Domani Merenda sarà ospite delle Giornate della luce, festival in corso a Spilimbergo. Splendido settantasettenne ironico, che parla un italiano fluente e ricercato, e che può vantare tra i suoi fan Quentin Tarantino, Luc a Spilimbergo sarà intervistato dal critico Steve Della Casa, insieme ad altri protagonisti di quel “periodo d’oro“ del cinema italiano, da Fabio Testi al direttore della fotografia Blasco Giurato.

Luc Merenda, qualche tempo fa aveva lasciato Parigi per il sud della Francia. Adesso la ritroviamo a Roma…

"Sì! Roma è la città del mio cuore, da sempre. Dal primo giorno in cui sono arrivato, con mio padre, in barca risalendo il Tevere. Ho avuto, quasi mezzo secolo dopo, lo stesso shock di amore e di nostalgia per Trastevere. Non è cambiato niente nel mio cuore".

I suoi film erano venduti in tutto il mondo. Anche in Africa e in Asia. Che cosa ha fatto, con i soldi che ha guadagnato?

"Quando guadagnavo tanto, ho aiutato tanta gente che aveva avuto meno fortuna di me. Ho offerto tante cene, non ho badato a spese. Ma solo cene, ristoranti, viaggi. Non mi sono mai drogato, non ho mai perso la testa. Per me il successo è qualcosa di relativo: chi pensa di essere arrivato, in qualunque campo, è solo uno s….".

Negli ultimi anni, ha anche intrapreso altre attività.

"Sì: ho lavorato con un artista, uno scultore fra i più bravi dell’Asia, che portava nei suoi lavori la grande cultura orientale, il taoismo, la filosofia. E mi sono ritrovato anche a fare l’antiquario: è arte anche quella. Adesso leggo, cerco di fare tutte le cose che non ho avuto tempo di fare prima".

Torniamo al cinema di cui è stato protagonista. Com’è che un ragazzo francese che studiava a New York finisce a Cinecittà?

"È vero, studiavo a New York, alla Columbia University, e per vivere facevo anche il lavapiatti. Poi il mio patrigno volle portarmi in vacanza a Roma, e pensò di arrivarci via fiume. Dalla riva, la gente continuava a farci grandi segni, e noi non capivamo. Credevo ci salutassero. Invece volevano avvertirci che il fondo era troppo basso. Alla fine lo capimmo quando la barca si incagliò, e dovemmo tuffarci nel Tevere e chiedere aiuto per liberarla. Ma durante quella vacanza ebbi l’occasione di partecipare a un provino cinematografico, e la mia vita cambiò per sempre".

Fisico sportivo, arti marziali, motociclismo, paracadutismo. E la faccia giusta…

"In realtà no. Mi dissero che ero troppo bello, troppo “pulito“. Ma il produttore capì al volo che non ero quello che sembravo".

E sono iniziati gli anni da "duro".

"Sono stati gli anni più belli della mia vita. Mi sono chiesto: perché non ho scoperto Roma prima?. Ho amato tutto dell’Italia: l’amore per il cibo, per la musica, l’amore per la vita. Ho capito perché tanti attori americani facevano carte false per venire qui, a scoprire come si vive, come si gode la vita".

E nel cinema, come è stato?

"Ho trovato un grande regista e una grande persona, Sergio Martino. Ho incontrato un produttore geniale come Goffredo Lombardo, e anche un altro grande regista, come Fernando Di Leo. Fernando ebbe l’intuizione di darmi il personaggio di un poliziotto corrotto, per dimostrare che un corrotto, in certe posizioni, può provocare danni gravissimi. È un grande dolore, per me, il fatto che Fernando non ci sia più".

Il personaggio del commissario, alla fine, non le stava un po’ stretto?

"Molto più che un po’ stretto. A un certo punto mi offrirono l’ennesimo ruolo di commissario, e io risposi: ma se volevo entrare in polizia, facevo domanda!. Ho fatto anche western, gialli, film erotici, drammi. Ma capisco anche che, per il pubblico che ha amato quei film, rimarrò sempre il commissario. E in fondo sono grato a quei personaggi, che mi hanno portato nel cuore della gente".

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