Venerdì 19 Aprile 2024

Mal: "Ci sentivamo come i Beatles. Ma devo tutto a Furia, mia gloria eterna"

Il cantante 76enne: negli anni 60 ero più famoso dei Rolling Stones, col mio gruppo sono stato protagonista di un’epoca irripetibile. "Ero un anonimo ragazzo arrivato dal Galles che sopravviveva distribuendo i giornali. Grazie all’Italia sono diventato una star"

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Un’estate in macchina, migliaia di chilometri macinati da solo. Niente assistenti, manager, tecnici e musicisti al seguito. Solo una chiavetta con le basi e la sua voce dall’inconfondibile accento, come dice lui stesso, alla Stanlio e Ollio. Settantasei anni e ancora tanto desiderio di far sognare. Mal è stato l’artista che, negli anni 60, grazie a Gianni Boncompagni che lo scoprì a Londra dove cercava talenti per l’appena aperto Piper, portò in Italia le atmosfere ingenuamente trasgressive della swinging London. Carnaby Street, le minigonne di Mary Quant e una versione più edulcorata di quella stagione psichedelica così ben raccontata in Blow Up di Michelangelo Antonioni.

Mal, quando nel 1965 lei partecipò insieme ai Primitives all’audizione di fronte a Gianni Boncompagni e a Alberigo Crocetta, il proprietario del Piper, in quella Londra coloratissima era già famoso.

"È stata un’epoca irripetibile, dove sembrava che tutto fosse possibile. Anche che un anonimo ragazzo arrivato dal Galles dove sopravviveva distribuendo i quotidiani la mattina, potesse arrivare alle soglie del successo, sentirsi protagonista di un cambiamento epocale, che aveva a che fare non solo con la musica, ma anche, soprattutto, con il costume, con gli stili di vita".

E lei c’era.

"Non solo c’erò, ma per un periodo, prima di accettare la proposta di Boncompagni che avrebbe cambiato la mia vita, sono stato tra quelli che poi la storia della musica mondiale l’hanno fatta davvero. Chissà, fossi rimasto in Inghilterra…".

Faccia qualche nome.

"Io avevo già inciso dei dischi, ero una piccola celebrità in una scena che ogni notte si arricchiva di nuovi artisti. Nel 1963, ad esempio, ero in cartellone in un grande ‘free festival’ a Hide Park, Il parco verde nel cuore di Londra. Un trionfo, tanti ragazzi in adorazione. Finisce il concerto, e, mentre cerco i camerini, inseguito dai fan che mi chiedevano un autografo, mi accorgo che in un angolo, lontano dal clamore del festival c’è un gruppettino che suonava, senza palco, nel disinteresse totale. Il suono mi sembrava interessante, mi avvicino per sentirli meglio, erano i Rolling Stones, talmente sconosciuti da non avere nemmeno il nome in programma….".

In un’altra occasione, invece, ha incrociato gli eterni rivali degli Stones, i Beatles.

"A Londra eravamo troppi, non c’era lavoro per tutti i gruppetti beat che nascevano, così molti erano costretti a emigrare per poter suonare nei club. E la Germania, Amburgo, in particolare, città portuale con tanti marinai alla ricerca di divertimento facile, era una sorta di ‘terra promessa’. Si facevano dei contratti con dei circuiti di club che appartenevano a società diverse. I Primitives e i Beatles si esibivano per due catene concorrenti, ma era inevitabile, alle 5 del mattino, finire nella stessa bettola sul mare a bere e a scambiarsi racconti sull’Inghilterra".

Loro, poi, sono tornati a Londra ed è iniziata la loro leggenda. Lei, dopo Amburgo e le esperienze londinesi, è finito in Italia. Rimpianti?

"Da voi sono diventato una star, li sarei potuto essere uno dei tanti. In Italia ho incarnato il sogno irraggiungibile, sino a quel momento, della stravaganza, dell’eccentricità, della diversità e della provocazione. Sino a quel momento la musica italiana era tutta una nenia accomodante, buona per le mamme, ma non per le figlie. Noi, in quelle figlie, abbiamo risvegliato pulsioni che non immaginavano di avere".

Pulsioni, psichedelia, ma poi il successo vero arriva con la sigla di un telefilm per bambini, dove lei interpreta ‘Furia’.

"Qualcuno ha scritto in passato, travisando il mio pensiero, che considero l’aver cantato Furia una sorta di condanna. Non è assolutamente così. Devo tutto a Furia. È stata, in un certo senso, la mia pensione, quanto meno dal punto di vista della fama. È vero che, accettando di cantarla, nel 1977, dovetti rinunciare al Festival di Sanremo e la canzone che dovevo portare, Che sei bella da morire, fu interpretata dagli Homo Sapiens e vinse. Ma non poteva andarmi meglio. Come cantante beat non potevo durare a lungo era un fatto giovanile, invece con Furia è stata gloria eterna".

Gloria, ma, sembra di capire, non un grande affare da un punto di vista economico.

"Sfatiamo subito una leggenda. A cantare le sigle televisive si guadagna pochissimo. Ci sono troppi interessi intorno. È una torta succulenta che viene divisa da tantissime diverse persone. E all’interprete rimangono le briciole. Verrai ricompensato dal fatto che tutti ti conosceranno, ti dicono… e tu ovviamente accetti".

In effetti è andata così.

"Si, sono diventato il cantante delle sigle per bambini e, ancora adesso, quando vado in giro per le balere, tra i miei classici beat, Furia devo assolutamente inserirlo. È un marchio di fabbrica e al pubblico interessa più quello che i miei trascorsi nello stesso festival dove I Rolling Stones passavano inosservati".

All’estero è comunque tornato. Con i suoi classici rock, non con Furia.

"Ho avuto la fortuna di girare il mondo con la mia musica. Non come adesso, che per far fronte alla crisi bisogna andare in giro da soli, in macchina, con le basi registrate, nelle balere per far divertire i nostalgici degli anni 60. Ho dovuto lasciare a casa anche la mia orchestra, sei bravissimi musicisti, nessun locale ha il budget per permetterseli, così mi arrangio diversamente. Altri tempi quando nel 1972, dopo aver trionfato al Piper, fui ingaggiato dal mitico Hilton Hotel di Las Vegas per una lunga serie di concerti. Elvis Presley, allora, era la grande attrazione dell’albergo, aveva un attico sulla sommità e spesso scendeva ad ascoltare gli artisti prescelti, come me, per animare le serate nelle quali lui si riposava…".

 

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