
Pochi poeti, non va bene. Questo ho pensato leggendo a specchio il programma del Salon du Livre di Parigi a cui l’Italia è ospite. In apertura della fiera Mattarella ha citato Dante, e nel programma di Parigi affiorano il nome di D’Annunzio e tra i viventi dell’ottimo, ma solingo, Giuseppe Conte. E stop. Niente Montale, niente Ungaretti, né Sereni o Luzi o Bigongiari o altri che pur coi francesi – per frequentazioni e traduzioni – han trafficato parecchio. Una svista? Una politica editoriale? Non so, non giudico, ma so che non va bene. E non per difesa della categoria, non occorre. I poeti se ne fottono delle categorie, pure della propria. Ma la domanda è inquietante. La poesia davvero rappresenta così poco nel sentire della ufficialità culturale italiana? E se sì come mai? Si può davvero aspirare a una “fraternità“ europea senza sondare quel che di umano e comune l’arte della poesia ha il potere di evocare? Non a caso risulta assente anche un buon poeta come Francesco d’Assisi che nel canto creaturale indica la radice di una possibile fraternità, altrimenti fantasmatica se fondata solamente su una idea di tolleranza senza radici e senza ontologia. E se la poesia non conta non manca qualcosa proprio di ciò che ha reso l’Italia culla di tanti elementi fertili della cultura europea, dal medievale Dante all’umanista Petrarca fino ai geni del Rinascimento che illustravano intuizioni dei poeti?
Il poeta russo Osip Mandel’štam individuava nella lingua italiana la caratteristica del bacio, del saluto, insomma della lingua di relazione. Dell’incontro. E tale anima della nostra lingua si è espressa sempre al più alto e complesso livello nella poesia. Senza Petrarca non avremmo Shakespeare o Baudelaire. E allora perché, mi chiedo, questa disattenzione alla poesia da parte della cultura ufficiale e editoriale? La poesia è come l’acqua, libera da logiche di numero e di mercato, ma non per questo è meno viva, presente e ravvisabile per chi ha occhi e orecchie. Affiorano molte possibili risposte, accanto alla più ovvia, ovvero la pigra disattenzione. Una certa refratterietà da parte di chi calcola la cultura in numeri e vendite a relazionarsi con un bene libero e impalpabile? Oppure si tratta di quella ignoranza che ritiene esistente solo la cultura visibile sui media?
Forse occorre essere più semplici. È una fiera del libro, ci va quel che vende o si presume che venda, le presenze sono decise così. Una fiera, appunto. Niente di male. La poesia, in effetti, alle fiere sta scomoda, non va a chili, non fa sconti. E allora si tratta forse di non incaricare le fiere (ottime iniziative in sé) di essere quel che non possono essere, rappresentanti la cultura di un paese. La cultura infatti non è mai del tutto coincidente con il commercio e con il commerciabile. Con il famoso. Con l’assodato per le élite. E questo discorso ci porta ad allargare il problema, cosa che la poesia fa sempre: allarga i confini dello scontato. Porta inquietudini, non accetta e insidia la retorica, rimescola. Forse occorre fare attenzione a ciò che mormora, non solo a ciò che è già scritto a caratteri cubitali. La poesia per fortuna non tace, che i commercianti ascoltino o no.