L’impresa di Avati: "Il mio Dante, un uomo"

Il regista racconta il Sommo poeta in un film e in un romanzo: "Perse la madre da bambino, scrisse in miseria. E morì tra gli angeli"

Pupi Avati, 82 anni

Pupi Avati, 82 anni

Pupi Avati è una persona sorprendente. Da ragazzo suonava jazz, quel jazz che sarebbe rimasto la sua passione per tutta la vita: poi rinunciò, perché – dice oggi – Lucio Dalla era troppo più bravo, con quel maledetto clarino. E allora, si è fatto strada in un cinema italiano affollato di fuoriclasse, fra un Federico Fellini che rifulgeva nel più alto dei cieli e Bertolucci, Bellocchio, i Taviani agguerriti, politici e formidabili. Lui ha costruito, con pazienza sottile di artigiano, un cinema tutto suo, intriso di malinconie fuggevoli, di brunite nostalgie, di fremiti, rimpianti, dolori silenziosi e rossori adolescenziali, un cinema di eroi timidi, di allegrie meste come il volto di Carlo Delle Piane, uno dei suoi attori memorabili. Un cinema in cui Bologna e l’Appennino diventano luoghi dell’anima, la provincia diventa il paradigma del mondo, l’amore e il dolore ballano sempre allacciati, con gli abiti un po’ sgualciti, fra la via Emilia e il sogno.

Ma questa volta, con cinquant’anni di carriera e 82 di vita, Pupi Avati sceglie una sfida da far tremare i polsi. Raccontare Dante, il più grande di tutti. E sceglie di farlo al cinema, con un film in cui Sergio Castellitto interpreta Boccaccio, e in un romanzo, L’Alta Fantasia.

Avati e Dante: partiamo dal film.

"L’ho finito di girare, ora sono al montaggio. Era un film che volevo fare dal 2003: dopo tanti ostacoli, ho trovato chi ha apprezzato la mia idea. Voglio che il mio sia un Dante seducente, diverso da quello che mi era stato insegnato a scuola, completamente repulsivo. L’ho scoperto da adulto, ho scoperto un ragazzo con una capacità di introspezione poetica straordinaria. Ecco, io cerco nel mio film di raccontare quel ragazzo".

Ma sul Sommo poeta, oltre al film, Pupi ha scritto anche un romanzo, che parte dall’ultimo respiro di Dante, il 14 settembre 1321, per poi andare all’indietro, e raccontare l’infanzia e l’intera vita, e il viaggio che Boccaccio, 30 anni dopo la morte del maestro compie per trovare la figlia dell’Alighieri divenuta monaca col nome di suor Beatrice.

Molti scrivono di Dante, nell’anniversario della sua morte. Il "suo" Dante in che cosa è diverso?

"Il mio è un Dante umano, privato. Quello che molti studiosi, filologi, linguisti, storici e teologi hanno trascurato. Un Dante che, bambino, ha perduto la madre, per esempio. Un evento cruciale, mai sottolineato a sufficienza".

Il suo romanzo fonde dati storici e immaginazione. Come nel bellissimo episodio che riguarda una bambola nuziale.

"Quella è un’invenzione nata da una chiacchierata con il mio amico Franco Cardini, uno degli storici che rispetto maggiormente. Era usanza, nel Medioevo, donare bambole nuziali alle spose, come auspicio di fertilità. Io immagino che la bambola appartenuta alla Beatrice amata e angelicata da Dante, e andata in sposa a un altro, finisca poi per un gioco borgesiano di coincidenze nelle mani di Boccaccio".

Nell’Alta Fantasia c’è tutta la crudezza di un Medioevo di malattie, di morte, di battaglie.

"Sì: un Medioevo denso di corporalità: quella di Boccaccio, afflitto dalla scabbia; quella di Beatrice, così bella e divina, poi portata alla morte dal vaiolo; quella di Dante, di cui racconto subito l’ultimo sospiro, sdraiato in un giaciglio, con intorno “gli angeli di Dio che vorticavano bassi“…".

Finché non arriva "il muto volo degli angeli verso l’infinito". La sua prosa è molto poetica.

"Cerco di ritrovare il suono di quella lingua meravigliosa, duttile e solenne".

C’è anche il suono di brani jazz e classici. Da Mingus a Coleman, da Ellington a Berg…

"Sono i brani che ho ascoltato mentre scrivevo il romanzo. Alcuni sono dei classici, alcuni sono brani rari che il lettore difficilmente troverà. Ma volevo sottolineare che scrivere è, sempre, una questione di musica, di ritmi, quasi fisica".

In definitiva, chi è Dante per lei?

"Qualcuno che sognava di tornare nella sua Firenze, di essere incoronato poeta nel “bel San Giovanni“. Uno che ha lavorato e scritto in condizioni tremende, in povertà e miseria, inviso alla Chiesa che ha fatto di tutto affinché la sua Commedia non fosse divulgata".