Elio Germano: "Il mio Ligabue lontano da tutto"

L'attore fa rivivere il Van Gogh italiano: "Non ho visto lo sceneggiato con Bucci per non farmi influenzare"

Elio Germano nei panni di Antonio Costa, conosciuto come Ligabue

Elio Germano nei panni di Antonio Costa, conosciuto come Ligabue

Roma, 26 gennaio 2020 - La postura ingobbita, come la sua. Lo sguardo torvo, fisso. I capelli senza grazia, i baffi ingrigiti, il naso grande, ricurvo. Il colletto della camicia un po' liso, la giacca sfinita, il panciotto senza più colore. La magrezza del volto, la pelle che cade sotto il mento. L’amarezza, la sofferenza che traspaiono in ogni centimetro della sua persona. È Elio Germano divenuto – nello sguardo, nella pelle, nei vestiti – Antonio Ligabue. Lo vediamo così, somigliante in maniera millimetrica, nel poster del film Volevo nascondermi , in uscita il 27 febbraio. Il film racconterà la vita maledetta, dannata di un pittore dall’anima di bambino, la vita tragica di un pittore che si sentiva più vicino agli animali che agli uomini. Una faccia segnata dall’angoscia, dalla solitudine, dalla malattia mentale. Uno sguardo fiammeggiante, da rapace, gli occhi furiosi e impauriti, incassati nelle orbite. Una vita in bilico, fra la fama e il manicomio. Una vita mai felice.

È il Van Gogh italiano, hanno scritto. Beh, nello stile, quel lussureggiante naif, assomigliava forse più al Doganiere Rousseau. Ma in realtà, era Ligabue e basta. Gli italiani hanno cominciato a conoscere e ad amare la sua storia nel 1977, grazie ad uno sceneggiato tv – ispirato a un racconto in versi di Cesare Zavattini – con cui si confrontò un’intera generazione. Ligabue aveva il volto di Flavio Bucci, in una prova attoriale superba. Adesso, l’impresa tocca a Elio Germano.

Ligabue, quello vero, nei rari filmati d’archivio, appariva come una creatura selvaggia, non riconducibile a niente. Si sentiva un animale fra altri animali, camminava per i boschi della pianura padana con uno specchio appeso al collo. Faceva il verso degli uccelli, sentendosi come loro. Sentiva presenze invisibili accanto a sé. Vestiva con abiti femminili, per sentire in qualche assurdo modo accanto a sé la presenza di una donna, una donna che non ebbe mai. Faceva statue masticando l’argilla in bocca, impastandola con la saliva. Faceva autoritratti colpendosi prima con una pietra, al naso o alle tempie. Dipingeva piangendo e ululando, come fanno gli animali. Se un’opera gli piaceva, ci dipingeva una libellula o una farfalla. Simboli di leggerezza, di gioia. Come si racconta tutto questo in un film? "Ho scelto di non vedere lo sceneggiato, per non essere influenzato in nessun modo", ha detto Elio Germano in una intervista concessa a Raffaele Meale. "Ma, parlando con la gente del posto, ho visto che si è attaccato alla memoria delle persone; tanto che molti citano come aneddoti veri della vita di Ligabue cose riprese da quello sceneggiato. Sono molto curioso di recuperare quello sceneggiato, perché Flavio Bucci è un attore straordinario".

Il regista del film, Giorgio Diritti, non è nuovo a imprese cinematografiche coraggiose. All’esordio, con Il vento fa il suo giro , esplorò una storia nelle valli occitane della provincia di Cuneo, totalmente dimenticate dalla modernità. In Un giorno devi andare descrive la vita di una suora e di una giovane donna in Brasile, fra gli indios dell’Amazzonia, e racconta di silenzi interiori e suoni ancestrali della natura. "Si può nascere con una fisicità sgraziata, una mente velata dalla follia, ci si può sentire sbagliati, soli, avere voglia di nascondersi per la vergogna di esistere - dice Diritti - . Ma si può credere nel proprio talento e farlo diventare occasione di riscatto. C’è sempre un modo per essere se stessi ed essere amati: Ligabue ha cercato questo, tutta la vita".

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro