
Roberto Emanuelli, romano, 47 anni
"Dopo un amore tossico non possiamo tornare quelli di prima ma possiamo tornare a essere felici". Nel suo ultimo romanzo, il decimo, Tutta questa felicità (Feltrinelli), Roberto Emanuelli racconta ciò che accade quando una storia finisce male: il dolore ma anche l’opportunità di rinascere. "Da queste profonde ferite usciranno farfalle libere", diceva Alda Merini. Romano, classe ’78, Emanuelli ha lasciato il lavoro “sicuro” in banca per scommettere sulla scrittura. Nel 2015, sceglie di auto pubblicare il suo primo libro Davanti agli occhi; da lì inizia una carriera di successi con le principali case editrici italiane, accompagnata da un crescente seguito sui social. Per Emanuelli “autenticità“ è la parola chiave.
Qual è stata la scintilla da cui è nato il suo ultimo romanzo?
"Una storia tossica che ho vissuto sulla mia pelle e che mi ha cambiato la vita. Gabriele, il protagonista, è un quarantenne – quindi mio coetaneo – che esce da un rapporto così. Volevo mettere in luce i segni che lasciano queste situazioni, anche dopo tanto tempo, soprattutto se non troviamo la chiave per ricominciare e guardare il mondo con occhi nuovi. Come ho detto anche pubblicamente, a me è successo di cadere in una profonda depressione, tanto da aver avuto bisogno di un supporto farmacologico. Dopo un percorso di analisi, ho capito che non sarei più tornato quello di prima ma potevo ancora essere felice".
Che cos’è la felicità?
"Difficile da dire in modo assoluto. Credo sia qualcosa di diverso per ciascuno di noi. Poi, distinguo felicità e serenità. Quest’ultima la puoi raggiungere pian piano e conservare anche per lunghi periodi. La prima invece è fatta di attimi, come diceva Totò. Sono picchi. Di gioia, euforia, magia. Ma, anche se dura poco, la felicità è qualcosa a cui puntare".
E se dopo una storia finita male non si ha la forza di ricominciare? Come trovarla?
"Non sono uno psicologo, quindi non ho una risposta “giusta”. Per esperienza, consiglierei di accettare il dolore e di attraversarlo senza scappare. Anche facendosi aiutare, se necessario, con dei farmaci – non bisogna vergognarsene. Ci vuole tempo e non si può pensare di dimenticare quel dolore. Non accadrà, non siamo dei robot. Semplicemente possiamo andare avanti, portandoci dietro quella esperienza e facendone tesoro".
Anche il suo rapporto con la scrittura è una storia di rinascita: "Non potevo urlare, e allora scrivevo". ha detto.
"Per me la scrittura è sempre stata cura, da prima che diventasse un lavoro. Lo è stata in tutte le fasi più cruciali e brutte della mia vita. Ma anche in quelle belle. E lo è ancora. È uno specchio, in cui guardarmi e capire cosa sta succedendo dentro di me. Nella vita, tendiamo spesso a indossare maschere e così rischiamo di perderci. La scrittura è quel posto dove mi spoglio e trovo la forza di restare nudo".
Per molto tempo, però, ha pensato di non poter fare lo scrittore. "Non ho il coraggio di essere povero, di essere un artista, di essere me stesso" diceva. Cosa direbbe oggi guardandosi indietro?
"Un mio caro amico artista diceva appunto che serviva il coraggio di essere poveri, nel senso di essere disposti a perdere tutto per ciò in cui si crede. Io per molto tempo non l’ho avuto. Vengo da una famiglia umile. Mio padre è morto quando ero solo un ragazzino e mia madre, pensionata, mi chiedeva di cercare un lavoro “vero”. Così ho avuto paura e ho iniziato a lavorare in banca. Da un lato mi perdono per questo, dall’altro se dovessi dare un consiglio a un figlio, a un giovane, al me di quegli anni, direi di buttarsi perché l’unica sicurezza nella vita non è il posto fisso, ma provare a essere felici".