
Giovanni Gentile, ucciso il 15 aprile 1944: domani ricorreranno i 150 anni dalla sua nascita
Professor Alessandro Campi, nel suo libro su Giovanni Gentile in uscita in questi giorni (Una esecuzione memorabile. Giovanni Gentile, il fascismo e la memoria della guerra civile) usa nel titolo un’espressione che potrebbe sembrare forte. Perché l’omicidio Gentile fu un’esecuzione memorabile?
“È un’espressione di Machiavelli che indica una cosa semplice e nello stesso tempo dura. Nei cambi di regime, specie nei passaggi da una tirannia a una repubblica c’è sempre una morte esemplare, un qualcosa che fa da spartiacque. La morte di Gentile è un po’ questo. La fine del vecchio sistema monarchico dittatoriale-fascista precedette l’arrivo della repubblica e della democrazia, e nel mezzo ci fu una devastante guerra civile. Gentile è stato la vittima più illustre di quel passaggio”.
La morte di Gentile ha sollevato per anni polemiche, anche sulla dinamica dell’agguato.
“Nel mio libro ho voluto sottrarre la discussione alle polemiche su mandanti ed esecutori. C’è stato un momento della storia italiana in cui anche il delitto Gentile sembrava uno dei tanti misteri irrisolti. C’era chi diceva che l’avevano ucciso i partigiani addirittura con l’accordo dei fascisti, chi adombrava l’intervento dei servizi segreti inglesi o americani. Ho preferito invece riflettere sul significato politico e storico della sua morte e sulla memoria della guerra civile”.
Chi fu Giovanni Gentile?
“Fu un grande filosofo ma soprattutto un grande organizzatore culturale che mise mano a una serie impressionante di iniziative, che gli resistono e ne definiscono la figura, e in un certo senso riabilitandolo”.
Perché lo riabilitano?
“Logica vuole che se era un lavoro da lui fatto nella dittatura e per la dittatura, alla fine della dittatura tutto sarebbe stato soppresso perché non più funzionale. Non è invece accaduto. L’Enciclopedia italiana, gli istituti storici nazionali come quello italo-germanico o sul medio oriente, la Scuola normale di Pisa che lui ha rilanciato, il Centro di studi manzoniani, la Domus mazziniana, la Domus galileiana sono ancora lì”.
Perché Gentile vi si dedicò così intensamente?
“Era un figlio del Risorgimento e credeva che l’Italia avesse bisogno di unificarsi culturalmente oltre che politicamente. Quindi attraverso il fascismo si adoperò per creare una specie di architettura culturale di un paese che era ancora giovane. Anche i suoi studi sono tutti indirizzati a questo”.
Quali?
“Guardiamo i suoi saggi, sono tutti volti a ricostruire la trama della cultura italiana nei secoli. Ha passato la vita a scrivere su Dante, Giordano Bruno, Campanella, Vico, Manzoni, Leopardi, Fratelli Spaventa”.
Quale fu il suo errore?
“Pensare che il fascismo fosse la prosecuzione del Risorgimento, non cogliendo le profonde differenze che esistevano, a cominciare dalla mancanza di libertà che invece la classe dirigente liberale aveva sempre assicurato. Un errore che pagò con la vita”.
Perché Gentile aderì alle Repubblica sociale?
“Non fu una scelta conveniente, e infatti i familiari lo consigliavano di tenersi fuori, essendo già fuori da tempo dalla vita politica. Aderì come tanti ossessionato dall’idea che l’Italia rischiava di dividersi, quindi meglio perdere ma perdere tutti insieme per restare uniti. La guerra è persa, pensava, ma attenzione a non perdere noi stessi. Fu un appello generoso ma velleitario tant’è che si fece nemici sia tra i partigiani sia tra i fascisti estremisti. Nelle guerra civili le voci più moderate non vengono mai ascoltate”.
Poi c’è la vicenda del figlio.
“Il figlio Federico era prigioniero in Germania e i tedeschi per la sua liberazione chiesero a Gentile di prendere posizione pubblica per la RSI. Si dovette esporre, e finì in tal modo nel mirino dei partigiani comunisti”.
Ogni anno la celebrazione della morte di Gentile è accompagnata da polemiche. Quest’anno a Firenze ci si è di nuovo divisi se intitolargli una rotonda. L’Italia è pronta a una discussione serena su questi fatti e su questi personaggi?
“Vedo che il dibattito pubblico è ancora troppo dominato dalle contingenze politiche e dalle opposte esigenze di narrazione pubblica. Colpa dei politici ma specialmente dal ceto intellettuale, che è il primo a dover discutere partendo da una conoscenza vera della storia. Ci vorrà ancora del tempo, non credo poco”.