
Nel nuovo memoir Agnese Pini si confronta con il padre che era stato ordinato sacerdote
Un segreto scoperto per caso, un padre da riscoprire, una verità difficile da accettare: Agnese Pini ci conduce in un viaggio intimo ed emotivo nel suo memoir “La verità è un fuoco” (Garzanti). Agnese Pini, direttrice di Quotidiano Nazionale, il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno, è al suo secondo libro dopo ‘Un autunno d’agosto’ (Chiarelettere, 2023). Per concessione dell’editore pubblichiamo di seguito un’anticipazione di ‘La verità è un fuoco’.
_____________________________
di Agnese Pini
Il giorno in cui ho scoperto che mio padre era un prete avevo tredici anni. Oggi che ne ho trentanove voglio scrivere un libro su di lui, e non glielo so dire.
Ogni volta che ci provo le parole restano sul filo delle labbra, le domande incatenate, la voce agganciata al fondo dello stomaco, dolorosa e impotente. Allora, persa nella mia inettitudine, lo contemplo con la dolcezza che si riserva agli anziani e ai bambini in egual misura, quando li amiamo molto e li sentiamo fragili, anche se sappiamo bene che sono le nostre fragilità, non certo le loro, a farci tremare.
In genere accade alla fine del pranzo, dopo aver preso il caffè che beviamo ancora nelle tazzine di porcellana bianca con le ciliegie rosse dipinte sopra: sempre, mentre appoggio le labbra alla porcellana calda di caffè, e il calore mi lascia un brivido sulla pelle, mi stupisco di quanto siano rimaste rosse quelle ciliegie malgrado tutti questi anni. Lo raggiungo in cucina portandomi dietro la tazza vuota e il suo piattino, e me ne resto lì, in piedi, a cercare un coraggio che si fa subito piccolo piccolo, a guardarlo in silenzio, e intanto sprofondo in me stessa con quella domanda che non sa uscire, mentre lui continua a fare le cose che ha sempre fatto, da giovane come da vecchio, con la sua calma meticolosa e accorta. (…) Adesso ha le spalle un poco ricurve, i muscoli svuotati sotto la pelle tenerissima, sottile e delicata, le vene gonfie come minuscoli torrenti verdastri in rilievo, tra macchie brune, avvallamenti e increspature di quell’epidermide che sembra ogni volta sul punto di spezzarsi.
Quando mi appare così, concentrato e assorto come un tempo, ma sempre più lento e minuto di un tempo, mi prende una grande voglia di abbracciarlo. Chissà se lo sente, se lo capisce. (…) Per impedirmi di piangere mi basta concentrarmi su un particolare a caso: le briciole sul tavolo della cucina, dove lui aveva affettato il pane poco prima, qualche macchia d’unto sullo strofinaccio usato per prendere la teglia dell’arrosto dal forno, l’alone della bottiglia di vino rosso sopra il ripiano color crema. Neppure le macchie cambiano mai, sono rimaste le stesse di quando ero bambina e poi adolescente e poi giovane donna, e poi. Così mi ritrovo a pensare che loro, in fondo, sono la rappresentazione più fedele all’idea di famiglia che riuscirei a riprodurre: le macchie, gli aloni, le briciole, testimoni immutabili di riti destinati a incidersi nella nostra memoria con la sacralità dell’eterno ritorno (…).
Non posso scrivere un libro su mio padre e tenerglielo nascosto. Più volte, lo ammetto, ho accarezzato questa possibilità con un filo di folle disperazione. Ma è una possibilità ridicola. È, a tutti gli effetti, una non possibilità. Altre volte, mentre formulavo la mia muta richiesta componendola e scomponendola nel segreto della mente, mi è sembrato che lui sapesse già tutto, che lui fosse pronto come me a rompere il silenzio che sigilla la nostra intesa. (…) Per aggrapparmi a quella speranza mi è stato sufficiente leggergli un luccichio negli occhi, cogliere un’esitazione nel suo sorriso che volevo credere imbarazzato. Erano quelli i segnali che aspettavamo? Ma poi lui ha continuato a chiacchierare delle nostre cose senza importanza. (…)
Il fatto è che non ho alternative a questa storia, la sua storia. Il fatto è che non posso scrivere alcuna altra storia, perché ognuna mi riconduce sempre esattamente lì. (…) Pensavo che sarebbe stato più semplice a trentanove anni, e dopo tutti questi anni. Fare le domande, in fondo, è il mio mestiere: essere giornalisti significa saper fare le domande. E forse sbaglio a sorprendermi che proprio a lui, a mio padre, non riesca a fare l’unica domanda che davvero mi preme da tutta la vita: chi sei, papà? Chi eri, padre mio, prima di essere mio padre, quando eri soltanto un uomo? Quale mistero è diventato il tuo mistero, che ti avvolge e ti insegue e a volte ti fa gridare nel cuore della notte, ancora adesso che sei vecchio e fragile, e piccolo e tenero? Quali sono stati il tuo tormento e il tuo dolore, e quali la tua angoscia e il tuo rimpianto? E quale gioia, passione, amore, quale coraggio è stato il tuo coraggio?