Leopardi e l’enigma Infinito Quella bozza che divide

Gli studiosi discutono su un autografo considerato la prima stesura del testo. Il filologo Stoppelli pubblica un nuovo studio: "È suo". Ma è contestato

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di Stefano

Marchetti

"Sempre caro mi fu quest’ermo colle..." Non è soltanto un capolavoro della poesia di tutti i tempi: L’Infinito di Giacomo Leopardi è anche un profondo mistero, un enigma che da anni divide gli studiosi. Dell’idillio di Leopardi, composto attorno al 1819, si conoscono infatti due autografi sicuri, uno conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, l’altro all’Archivio del Comune di Visso (Macerata): nei mesi scorsi tuttavia è ‘tornato in scena’ un terzo documento, una carta (con la data del 1817 in filigrana) che su un lato riporta i primi undici versi dell’Infinito fino a "comparando", e sul retro nove righe di una versione in prosa, "Caro luogo a me sempre fosti benché ermo e solitario...". Questa carta (oggi affidata alla casa d’aste Finarte) potrebbe quindi essere la primissima stesura della poesia, la scintilla, l’idea iniziale. E il suo valore, non soltanto letterario, sarebbe inestimabile: si parla di centinaia di migliaia di euro. Ma i due abbozzi sono davvero del genio di Recanati? O furono abilmente falsificati?

Già nel 1898 l’abate bibliotecario Giuseppe Cozza Luzi lo ritenne autentico, così come ribadì Giuseppe De Robertis nel 1951. Tuttavia negli anni ‘60 il filologo Sebastiano Timpanaro ‘sconfessò’ l’attribuzione: a suo parere l’abate lo aveva messo in circolazione per rivalutare l’immagine di un Leopardi cattolico. "Io non sono d’accordo con questo parere ideologico – sostiene il professor Pasquale Stoppelli, insigne filologo, già docente all’università La Sapienza di Roma, che ha riaperto il ‘caso’ con un articolo sulla rivista dell’università di Milano Prassi ecdotiche della modernità letteraria –. Sono convinto invece che in questi abbozzi si possa leggere e riconoscere Leopardi". Nel suo studio il filologo esamina i termini utilizzati, lo stile e soprattutto i tanti richiami letterari (in particolare da Torquato Tasso) presenti nell’idillio: per esempio la frase "E al rumor d’impetüoso vento" dell’abbozzo in prosa sembra chiaramente figlia del "Portò del bosco impetüoso vento" dalla Gerusalemme liberata. "Il recupero in poche righe di materiali poetici di tale densità è compatibile solo con la prodigiosa memoria poetica di Leopardi", sottolinea Stoppelli.

Tuttavia proprio in questi giorni, sulla stessa rivista, esce uno studio paleografico del professor Antonio Ciaralli dell’Università di Perugia secondo cui la ‘mano’ dei due abbozzi non è di Leopardi. "L’esercizio mimetico è di tale precisione che anche un occhio attento può convincersi dell’autografia – scrive –. Ma esistono fondate ragioni per guardare con scetticismo a questa carta". Troppe le differenze segnalate dall’esperto: per esempio, nella sua grafia il poeta spesso legava la r con la a, così come faceva quando scriveva due f affiancate, ma in questo documento non accade. "Lo studio paleografico è inequivocabile, eppure in quel documento io continuo a ‘sentire’ Leopardi – commenta Stoppelli –. Non è detto che sia un falso completo. All’epoca, qualcuno può essere entrato in possesso di appunti o foglietti di Leopardi, ricopiandoli. Se anche la scrittura non è di Leopardi, penso che le parole lo siano". Allo straordinario idillio e anche al ‘giallo’ di questa carta l’università di Bologna dedicherà un convegno in gennaio. E intanto, il naufragar ci è dolce in questo mistero...

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