Lee Miller, la modella che fotografò la Shoah

Una mostra in Turingia rende omaggio alla donna che testimoniò gli orrori di Buchenwald. Musa di Man Ray e reporter coraggiosa

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di Roberto Giardina

La foto mostra due giovani donne tedesche nell’abito tradizionale, e davanti a loro un militare americano di colore. È il 16 aprile del ’45, la guerra non è ancora finita, Hitler è nascosto nel Bunker a Berlino con la sua Eva Braun, l’Armata Rossa è a pochi chilometri, ma è già stato liberato da cinque giorni il Lager di Buchenwald, al sud in Turingia, a otto chilometri da Weimar, la città di Goethe e di Schiller.

L’immagine fu scattata da Lee Miller, fotografa di guerra, ex modella, bellissima e coraggiosa, ed è esposta alla mostra che le è stata dedicata a Erfurt, a sedici chilometri dal Lager, dove morirono 40mila internati, tra cui Mafalda di Savoia. Il titolo è To Believe it!, credeteci, lo stesso del reportage apparso su Vogue, nel giugno del ’45. Altre foto mostrano gli internati appena liberati, e cumuli di cadaveri. Lee era indignata che gli abitanti di Weimar sostenessero di non aver saputo nulla del Lager, e di non essere mai stati nazisti, e senza dignità chiedevano sigarette e chewing gum ai soldati americani: "Come osano… mi prendono per stupida, come è stato possibile che abbiano seguito ciecamente Hitler".

Quasi trent’anni dopo, nel 1973, andai a Weimar, nella Ddr comunista, e i tedeschi continuavano a dirmi di non saper nulla, eppure ogni giorno per la stazione passavano treni stracolmi di deportati, diretti al bosco dove andava a passeggiare Goethe, e tornavano vuoti. Lee, aveva 38 anni, non si riprese più da quell’esperienza, non riuscì a cancellare quel che vide, finì per distruggere migliaia di fotogrammi. Ma non tutti. Il figlio Anthony, dopo la sua morte, scoprì 60mila fotogrammi nella soffitta della loro villa nel Sussex. E anche grazie a lui è stato possibile organizzare la mostra (alla Kunsthalle, Fischmarkt 7, fino al 18 ottobre), mentre si festeggiano i trent’anni della riunificazione, e nelle regioni dell’est, aumenta l’AdD, il partito dell’estrema destra.

Straordinaria e tragica la vita di Lee. Nata nel 1907 in un’agiata famiglia di New York, a sette anni il primo trauma: viene abusata da un amico del padre. A 19 anni rischia di travolta da un’auto a Manhatann, all’ultimo istante la salva un passante. Come in un film di Frank Capra, con l’immancabile happy end, è Condé Montrose Nast, l’editore di Vanity Fair e di Vogue. Colpito dalla straordinaria bellezza di quella passante distratta le offre di diventare una modella per le sue riviste. Il volto di Lee appare sulle copertine, ma non le basta. Se ne va, o meglio fugge, a Parigi, la città che accoglie gli scrittori e gli artisti americani, la Lost generation, la generazione perduta di Hemingway e Scott Fitzgerald.

Diventa l’assistente, la musa, l’amante di Man Ray. Appare nelle sue foto entrate nella storia dell’arte del XX secolo. Lui le insegna a fotografare, e Lee rivela subito uno straordinario talento. Nel 1943, è corrispondente di guerra per Vogue, la rivista di Condé Nast. Indossa la divisa e segue le truppe dallo sbarco in Normandia. Ed è il primo incontro con gli orrori e i crimini di guerra. Una divisione tedesca, 10mila uomini, è asserragliata a Saint Malo. Il primo agosto del ’44, la cittadina viene bombardata con il napalm, e scompare in un inferno di fuoco. Un massacro solo per provare il napalm che vent’anni dopo sarebbe stato usato in Vietnam. Le foto di Lee sono così atroci che non vengono pubblicate, e sono sempre top secret nell’archivio militare.

Lei segue l’avanzata a Parigi, in Alsazia, in Renania. A Monaco si fa fotografare nella vasca da bagno nell’appartamento di Hitler. Poi va a Buchenwald, e Auschwitz. Non riuscirà mai a dimenticare quel che vede. Dopo la guerra smette di lavorare, si sposa con l’artista britannico Roland Penrose, cade in depressione, diventa alcolizzata. Muore nel 1977, ancora bellissima. Ma non andrebbe ricordata solo per il suo fascino, e per gli uomini che l’amarono.

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