Sabato 20 Aprile 2024

Le canzoni italiane non vanno più in Meta

Rotte le trattative fra il colosso digitale e la Siae: Zuckerberg esclude la musica di casa nostra dai suoi social. La lotta fra diritti e deregulation

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di Lorenzo Guadagnucci

La musica (per ora) è finita, ma sotto la superificie, scavando fra note e canzonette, c’è una spinosa questione di potere. Con molti soldi in ballo e tutte le complicazioni tipiche del mondo digitale, più simile a una giungla che a un mercato ben regolato, e a volte vicino a realizzare l’ironico motto del “libero pollo in libero pollaio“, per dire che l’asimmetria di potere, in certi casi, impedisce di parlare seriamente di libertà. La notizia è che Meta, cioè Facebook, Instagram, Whatsapp, insomma il colosso fondato e capeggiato da Mark Zuckerberg, ha rotto le trattative con Siae, la società che gestisce i diritti d’autore in campo artistico in Italia, in condizione di quasi monopolio. Niente rinnovo dell’accordo sui diritti che Meta deve pagare alla Siae per l’uso della musica italiana, quindi via la musica italiana dai social marchiati Meta. Da subito. Bloccati i contenuti su Facebook, silenziati gli audio su Instagram. Un piccolo-grande e imprevisto trauma per utenti e influencer; un nuovo delicato caso giuridico per l’accidentata storia del copyright in rete.

La Siae ha subito attaccato Meta: "Una decisione unilaterale e incomprensibile". Ma i manager di Zuckerberg non si sono scomposti e hanno spiegato, con l’aplomb di chi ritiene di avere il controllo (il dominio) della situazione: "Purtroppo non siamo riusciti a rinnovare il nostro accordo con Siae, continueremo a impegnarci per trovare un’intesa che soddisfi tutte le parti".

Meta, nel suo comunicato, ricorda di avere sottoscritto accordi di licenza in 150 paesi alle stesse condizioni proposte a Siae ed è qui che emerge il conflitto e l’asimmetria di potere, mai davvero risolta nonostante siano ormai passati decenni dall’avvento di Big Tech, avvenuto – è questa la radice dei guai – in assenza di efficaci regolamentazioni, quindi in un clima di libertà del tipo evocato dal citato motto “libera volpe in libero pollaio“. Inutile dire chi siano le volpi e chi polli e galline.

Ma qualcosa è col tempo cambiato, per esempio è stata introdotta (2019) una direttiva europea sul copyright, recepita in Italia alla fine del 2021, e i giganti del web e dei social sono stati in qualche modo obbligati a pagare diritti d’autore – in quantità a dire il vero piuttosto incerte – per contenuti fin lì attinti a piene mani e senza corrispettivi adeguati. Siae, nella trattativa per il rinnovo dell’accordo scaduto a fine 2022, ha chiesto trasparenza, cioè di sapere quanto Meta incassi e stabilire così una "valutazione condivisa dell’effettivo valore del repertorio".

Trasparenza, però, è un vocabolo che non esiste nel dizionario dei colossi digitali, i quali hanno imparato così bene a “estrarre dati“ dagli utenti e a trasformarli in profitti, che non sono disposti a condividere le proprie informazioni. Mogol, il principe dei “parolieri“, nonché presidente onorario Siae, si è espresso con rude chiarezza: "Queste piattaforme guadagnano miliardi e sono restie a pagare qualcosa". Una questione di soldi e di potere, dunque.

Big Tech non è abituata a rendere conto delle proprie condotte, ma col tempo ha accettato – peggio che malvolentieri – di concedere qualcosa: agli agenti nazionali del fisco, alle varie autorità di vigilanza, a editori e autori. Ma sempre cercando di dominare la scena, per esempio presentando proposte nello stile “prendere o lasciare“. Sulla musica italiana, insomma, si sta giocando l’ennesimo braccio di ferro fra lo strapotere sedimentatosi negli anni, e i nuovi, pur incerti, assetti normativi che si vanno lentamente configurando.

Il ministro Gennaro Sangiuliano ha provato a buttarla... in cultura, dicendo che si tratta di "difendere la creatività nazionale e l’immaginario italiano", ma non sembra questo l’aspetto centrale della questione. Sia perché la musica italiana non è stata esclusa al cento per cento, visto che gli affiliati a Soundreef-Lea, la “rivale“ di Siae, restano in campo, anzi in rete (fra loro Laura Pausini, i Pooh, Fabrizio Moro, Paola Turci), sia – soprattutto – perché Meta non ha patria né confini da difendere.

Semmai deve guardarsi dai social concorrenti, per esempio Youtube e TikTok, dove si usano e si ascoltano ancora tutte le nostre canzoni, comprese quelle firmate Mogol. Potrebbe diventare un problema. Le trattative, c’è da scommetterci, riprenderanno: si sta (ri)scrivendo la storia del potere digitale.

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