Mercoledì 24 Aprile 2024

Paolo Ruffini: "Lascio i panni del comico. E vi racconto l’Italia dell’Alzheimer"

L’attore toscano e il film ’PerdutaMente’: con auto e telecamera ho girato il Paese e ho incontrato i malati uno a uno

Paolo Ruffini in 'PerdutaMente', in cui compie un viaggio nell’universo dell’Alzheimer

Paolo Ruffini in 'PerdutaMente', in cui compie un viaggio nell’universo dell’Alzheimer

"Mi sono sempre considerato un outsider, uno che non è dove te lo aspetti, non è come te lo aspetti. E una persona libera. In questo modo ho interpretato il mio lavoro, sempre".

Paolo, che cosa ha imparato guardando da vicino i malati di Alzheimer?

"Ho incontrato la purezza. Quella che fa dire ad alcuni di loro, più gravemente affetti dalla malattia. ‘io non so chi sono, io non so chi sei: ma ti amo’. L’Alzheimer rosicchia tutto quello che hai nel cervello: ma sull’amore, sui sentimenti non può fare niente. Ho capito che l’amore è il nocciolo profondo, invincibile, della nostra identità". Paolo Ruffini, conduttore, attore, sceneggiatore, regista, scrittore, autore teatrale. Tutti, però, tendiamo a mettere il suo nome nel cassettino mentale "comicità". Perché siamo pigri. Perché rischiamo di non vedere l’altra parte, importante, del suo lavoro, della sua personalità. Per esempio, quello che Ruffini ha appena fatto, col film ’PerdutaMente’, dove la mente perduta è quella dei malati di Alzheimer. Che Paolo è andato a incontrare, girando l’Italia con la sua auto e una telecamera. Parlando con loro, ridendo con loro, assorbendo il dolore dei loro familiari. Commuovendosi, a volte, e facendoci commuovere. Un cinema semplice, che non cerca l’effetto, che non cerca il patetico a tutti i costi. Che è un racconto d’amore e di rispetto.

Che storia racconta ’PerdutaMente’?

"È la storia di un’Italia nascosta. Colpita da un male che rimane attaccato addosso, da quando inizia a mostrarsi fino alla fine della vita. Un male di cui soffre oltre un milione di persone, soltanto in Italia: e con loro, le loro famiglie".

Come è nato il film?

"In tempi di Covid, dopo essermi imbattuto in film come ‘Still Alice’ e ‘The Father’, che trattano questo problema, ho pensato che dovevano esserci famiglie doppiamente segregate: in casa, per la pandemia. E alle prese, più soli che mai, con questa malattia. Allora ho mandato un messaggio su Instagram: se avete le vostre storie, raccontatemele. Hanno risposto in tantissimi".

Così ha iniziato viaggi, su e giù per l’Italia, a incontrare alcuni di loro.

"Ho cercato di capire l’anima che rimaneva imprigionata nelle persone colpite dalla malattia e l’anima del dolore di chi li assiste, giorno dopo giorno. Tante famiglie sono state vittime di lunghe segregazioni, con casi di disabilità mentale, e nessuno ha dato loro una mano".

Un comico che fa un documentario su una malattia, senza un comitato scientifico al suo fianco. Ha sentito diffidenza in qualcuno?

"No, non nelle persone che ho incontrato. E poi da sempre la malattia mentale ha colpito la mia attenzione. I primi spettacoli del ‘Nido del cuculo’, quei doppiaggi buffi che mi hanno fatto conoscere, li facevamo in luoghi di recupero per malati di mente. Ho studiato il lavoro di Franco Basaglia, la sua lunga battaglia per fare uscire le persone dagli ospedali psichiatrici. Ho fatto una ricerca sui reparti pediatrici dei manicomi, e ho scoperto orrori da Medioevo".

Ha anche fatto uno spettacolo, ’Up&Down’, che interpreta insieme ad attori con sindrome di Down. Che cosa le ha insegnato questa esperienza?

"Sono persone che hanno una confidenza con la felicità che manca a molti di noi. Hanno una enorme capacità di adesione alla vita: se viene uno sconosciuto e prende loro la mano, loro ci vanno serenamente. Mi hanno insegnato la felicità".

Pochi giorni dopo la fine del film lei ha perduto suo padre, che nel film compare – anche se non era malato di Alzheimer. Che terremoto ha portato nella sua vita?

"Sono stato insieme a mio padre fino al suo ultimo respiro. Ci somigliavamo molto: è come se fosse andata via una parte di me. Ma non è stato come se io lasciassi andare lui: mentre gli tenevo la mano, era lui a lasciar andare me. Come se adesso fossi diventato grande, come se fossi pronto a essere, a mia volta, padre".

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