di Lorenzo Guadagnucci Villa Tomažič, a Trieste, è in via dei Porta, una laterale di via Rossetti, in un bel quartiere borghese che sale verso il Carso, nelle immediate vicinanze del centro storico. Sulla facciata della villa, una decina di anni fa, è stata apposta una lapide che allude a vicende risalenti agli anni del fascismo e della guerra: “Dimora di una famiglia che rimarrà per lealtà, resistenza, grandezza d’animo e tragico destino nel perpetuo ricordo degli sloveni“. Degli sloveni ma anche di tutti i triestini e – perché no – del resto degli italiani, visto che la vicenda dei Tomažič intreccia vita pubblica ed esistenze private, questioni storiche e letteratura. Il pater familias era Pepi Tomažič, titolare in città del più noto e frequentato dei “buffet“ (una via di mezzo fra una tavola calda e una trattoria), ossia Pepi S’ciavo, frequentato da generazioni di operai, portuali, fattorini, ma anche impiegati, funzionari, dirigenti e oggi anche turisti, richiamati dai suoi piatti mitteleuropei rimasti immutati dai tempi degli Asburgo. Pepi morì nel ’44 nel crollo di un muro colpito dai bombardamenti: in quel momento aveva già sofferto il dolore più grande che una persona possa subire, la morte in gioventù dei propri figli. Il primogenito, Pino, classe 1915, era un ragazzo forte e intelligentissimo, un idealista entrato giovanissimo in conflitto col regime fascista, che colpì la minoranza slovena della città nel modo più crudele e profondo: il divieto di parlare la lingua madre in pubblico, a scuola come per strada o sui mezzi di trasporto. Pino diventò un rivoluzionario, sposò il marxismo, si mise a capo di un movimento clandestino di resistenza, finché non fu arrestato e condannato a morte dal Tribunale speciale salito a Trieste per giudicare centinaia di sloveni antifascisti. Pino venne fucilato con quattro compagni al poligono di tiro ...
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