
Andrea
Martini
Nell’iconografia popolare i dittatori sono rappresentati come vampiri, pronti a succhiare il sangue del loro popolo, nutrimento dell’ovvio desiderio d’eternità. In El Conde Pablo Larraín, già in dimestichezza con la satira politica fa, a suo modo, i conti con la nefasta immagine – che non passa – di Pinochet. Il sanguinario despota è nell’esilarante divertissement del regista un vampiro famelico, nascosto in una villa in rovina nell’estremità del paese, intento a nutrirsi di cuori surgelati, mosso da una brama degna dell’avo transilvanico. Zombie e vampiri ritornano e anche il conte Pinochet dal manto nero saprà come farsi vivo: monito allegorico esplicito.
Luc Besson, già uomo d’oro del cinema francese (Nikita, Le grand bleu) dopo il fallimento dei suoi studi e le accuse di “me too“ torna al mestiere. Il gusto per il racconto popolare e per le invenzioni visive non è venuto meno: Dogman, metà thriller metà favola nera, segue la vita di un infelice paraplegico che vive in simbiosi con un branco di cani, unici esseri viventi in grado di consolarlo da quando, adolescente, fu rinchiuso nella loro gabbia da un padre sadico e violento. In aiuto di Besson viene l’attore Caleb Laudry Jones, brillante caratterista americano (Palma a Cannes ’21 per Nitram).
A distanza di tredici anni da Nemico pubblico torna sul set (italiano) anche Michael Mann. Lo fa raccontando Enzo Ferrari da par suo: non attraverso il biopic dell’uomo di successo ma anzi cogliendone i drammi sportivi, industriali e familiari che lo afflissero alla fine degli anni ’50. Mann è abile e sa come trattare bolidi e passioni anche se di Enzo Ferrari Adam Driver ha solo gli occhiali neri.