La verità su Orwell: il suo era un mondo fraterno

L’autoritratto dell’autore di “1984“: antimperialista ma patriota, uomo di sinistra a modo suo. Non fu mai snob ma odiava i cliché

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di Lorenzo Guadagnucci

Si potrebbe dire che la visione del mondo di George Orwell non aveva nulla o quasi nulla di orwelliano. La distopia politica evocata nella Fattoria degli animali e squadernata in 1984 ha reso celebre il suo pseudonimo, all’origine di un aggettivo – orwelliano, appunto – capace di evocare scenari apocalittici e in apparenza sempre attuali, con un Grande Fratello che non ha più le fattezze di un partito-stato o di un tiranno comunista, ma le sembianze di un Moloch tecnologico incontrollabile. E tuttavia Eric Arthur Blair ha avuto una vita personale e letteraria troppo complessa per circoscriverla al tema forte dei suoi libri più famosi.

Orwell visto da Orwell, attraverso i diari e i frequenti scritti autobiografici, è un uomo di grandi passioni e di evidenti contraddizioni, sempre vissute con profonda onestà. È un uomo di sinistra, un socialista (a modo suo), un intellettuale che non esita a prendere la armi per combattere il fascismo, ma è anche un patriota, un individualista tutt’altro che scevro di certi pregiudizi (per esempio una certa dose di omofobia). C’è un elemento che attraversa tutta la vita personale e letteraria di Orwell: la coscienza – e la conseguente ripulsa – di vivere in una società rigidamente gerarchica e classista.

La sua cronaca degli anni trascorsi nel collegio di St Cyprian è un piccolo capolavoro di sociologia. Le sofferenze del giovane Eric Arthur sono descritte senza vittimismo, con un costante riferimento al sistema che le produce. "Erano i ragazzi poveri ma ‘intelligenti’ ad avere la peggio – scrive in un ironico saggio del 1947, ora in Un’autobiografia involontaria (Bur) e anche in Autobiografia per sommi capi (Mattioli 1885) – Il nostro cervello era una miniera d’oro in cui lui (il direttore, ndr) aveva gettato i suoi soldi, e per ottenere i dividendi doveva spremerci". Il giovane Blair alla fine fu ammesso a Eton, ma appena finiti gli studi quasi fuggì in Birmania, arruolandosi nella polizia coloniale.

Orwell era l’opposto di uno snob. Conosceva bene la classe operaia. All’inizio della sua carriera visse a lungo nell’indigenza. Nel 1936, incaricato di condurre un’inchiesta sulla classe operaia del Nord dell’Inghilterra, vi si trasferì e frequentò le case dei minatori, i circoli operai e le sedi sindacali; si calò nelle miniere. Sviluppò così il suo sentimento sociale più duraturo: lo spirito di fraternità. Uno spirito che non gli impediva di criticare la classe operaia inglese, per lui troppo remissiva, e specialmente i suoi sindacalisti, a suo giudizio tutti imborghesiti. Emblematica la descrizione di un leader sindacale in una pagina di diario: "Oratore scadente, che usa tutte le frasi e i cliché di un comiziante socialista e con il tipo sbagliato di pronuncia dialettale (anche lui, sebbene comunista convinto, borghese da capo a piedi)".

Orwell amava l’Inghilterra e arrivò a scrivere un elogio della cucina inglese e a dettare undici regole per "una bella tazza di tè", eppure fu un fervente antimperialista. Morì giovane, a nemmeno 47 anni, e non fece in tempo ad apprezzare il successo del libro che forse lo rappresenta di più: Omaggio alla Catalogna, pressoché invenduto con lui in vita. Ammirava il proletariato spagnolo, che combatteva il fascismo. La sua descrizione delle ferocia stalinista contro gli anarchici e i comunisti dissidenti è considerata giustamente un capolavoro della letteratura di impegno civile, ma il lato più vero di Orwell, nell’Omaggio, è nelle pagine iniziali, quando descrive l’accoglienza empatica e fraterna ricevuta da uno sconosciuto miliziano italiano, cui dedicherà una poesia, che si chiude così: “Ma ciò che io nel tuo viso scorsi Nessuna forza annientare potrà; Nessuna bomba spezzare saprà Quello spirito tuo cristallino”.

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