Giovedì 18 Aprile 2024

La terra sacra torna ai Nasi Forati. "Era nostra, l’abbiamo ricomprata"

La tribù indiana fu cacciata dall’Oregon un secolo e mezzo fa, a un anno dalla battaglia di Little Big Horn

Un’immagine della guerra contro i Nez Percés del 1877

Un’immagine della guerra contro i Nez Percés del 1877

"Sono stanco di combattere – disse il Gran Capo – Guardando lo Specchio è morto. Anche Uccello Bianco e Alce Magro sono morti. Gli anziani sono morti. È freddo e non abbiamo coperte. Abbiamo fame e non abbiamo niente...". Si arrese nelle mani dei generali Oliver O. Howard e Nelson A. Miles, dopo cinque mesi di scontri, imboscate, cariche feroci, stragi di donne, vecchi, bambini. Era il 5 ottobre 1877. Ci volle l’artiglieria per sconfiggerlo definitivamente. Il Gran Capo era Giuseppe. La sua tribù quella dei Nez Percés, Nasi Forati. Un personaggio nobile, coraggioso, un vero guerriero. Eppure di lui si parlò poco, prima, durante e dopo quella che passò alla storia come l’ultima guerra indiana.

Un anno prima c’era stata la battaglia di Little Big Horn. E tutti, dentro e fuori gli States, ricordano i nomi di Toro Seduto, Cavallo Pazzo, Nuvola Rossa. E dei Sioux, dei Lakota, dei Cheyenne, degli Arapaho. Ma pochi hanno sentito parlare di Giuseppe e dei Nez Percés, che in realtà il naso non l’avevano forato per nulla. Il loro vero nome era Nimiipuu, che significava "Noi, il popolo". Curiosamente le stesse prime tre parole della Costituzione americana del 1787. Furono i trappers francesi, i cacciatori di pelli, a escogitare quel soprannome.

Ebbene, di loro si riparla perché solo ora, cento anni dopo esserne stati cacciati con la forza, i Nez Percés sono tornati sul Sacred Ground. Si trova tra l’Idaho e l’Oregon, lungo il Wallowa River e il più noto Snake River, il fiume della leggenda che ha fatto da sfondo a tanti film western dal Fiume Senza Ritorno all’Uomo della Montagna.

Ma sbaglierebbe chi pensasse che sia stato il governo di Washington a riparare all’ennesimo torto storico. "Quel terreno – dice Allen Pinkham, discendente di Giuseppe – ce lo siamo comprato". Gliel’ha venduto un certo Mark Hetterwig, la cui famiglia ne aveva fatto un ranch di grandi dimensioni. Prezzo di favore. "Ma ne sono lieto per due ragioni – spiega – perché li ho fatti felici e perché hanno riacquistato una parte importante della loro eredità spirituale".

Il plateau guarda il Wallowa Range. Qui si sono sempre svolte le cerimonie del Weyekins destinate a richiamare il Grande Spirito. Giorni e notti di digiuno e meditazione sino a quando subentrava uno stato di trance popolato di estasi pervasive e di visioni nella forma di animali o di uccelli. A quel punto la mente era conquistata da una certezza agognata: lo spirito non l’avrebbe abbandonata per tutto il resto della vita.

In questi torridi giorni si sono ripetute le processioni di un tempo, le invocazioni del Weyekins, le danze rituali dalle cadenze aritmiche. Centinaia di Nez Percés cavalcavano gli Appaloosa, i loro cavalli dalle bardature colorate. Pantaloni di daino, penne d’aquila, pitture celebrative. I turisti li salutavano agitando i cappelloni da cowboy. Uno ha detto alla locale tv: un mio lontano prozio era nel reggimento del generale Howard.

Howard aveva un’esperienza di guerre indiane dopo la guerra civile. Due campagne contro gli Apache nel sud-ovest. Poi il governo di Washington lo mandò lassù nel nord, in Oregon, perché Giuseppe dopo essere stato privato del 90 per cento dei suoi territori, non voleva arretrare ancora. Del resto aveva dalla sua il trattato del 1855. Ma i cercatori d’oro lo volevano cacciare dai fiumi della riserva.

Giuseppe si ribellò. E dopo anni di nuovi, inutili negoziati, si mise in marcia con l’intera tribù verso il Montana. Era il giugno 1877. Aveva con sé 300 guerrieri. Le giubbe blu erano circa 5 mila. Ebbene, ci vollero 5 mesi prima di costringerlo alla resa. Non fu una guerra, come inizialmente venne descritta, ma una campagna di sterminio. Giuseppe voleva raggiungere il Canada, 1.400 chilometri più a nord. Una marcia della morte. I superstiti vennero deportati in Oklahoma. Qualche anno dopo Giuseppe andò a Washington a pregare il presidente Rutherford Hayes di farli tornare in Idaho. Dovette aspettare altri 18 anni.

([email protected])

 

 

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro