
Per la classifica di esperti (registi e attori internazionali) del New York Times. Rohrwacher è la regista che rappresenta al meglio il cinema italiano.
Come fatto nel luglio dell’anno scorso scegliendo i 100 libri più belli del 21° secolo – e a classificarsi primo fu L’amica geniale di Elena Ferrante – il New York Times ha "ridato la parola agli esperti" e, a partire da ieri, ha iniziato a svelare i 100 migliori film del 21° secolo scelti da celebri addetti ai lavori (registi, attori ma anche cinefili di rilievo).
Oltre 500 persone, tra cui Pedro Almodóvar e Sofia Coppola, hanno inviato la loro personale lista di 10 titoli preferiti, fra tutti quelli usciti dal 1° gennaio 2000. Realizzata in collaborazione con il sito di data journalism del Nyt, The Upshot, questa classifica svelerà 20 titoli per volta fino a decretare un vincitore. Nel frattempo però si possono visualizzare a parte le singole liste dei filmmaker ed è qui che si nasconde l’elemento più interessante, almeno per il nostro cinema.
C’è un nome, infatti, che in questo elenco emerge quanto Luca Guadagnino (5 citazioni, una di Almodóvar - Guadagnino l’“hollywoodiano“ è anche tra i votanti) e più di Paolo Sorrentino (3 citazioni) – 1 citazione a testa per Bertolucci (Io e te, votato da Guadagnino), Carpignano, Cortellesi, Frammartino, Garrone. È il nome di Alice Rohrwacher insieme a tre dei suoi lungometraggi: Le meraviglie, Lazzaro felice e La Chimera. È quasi ironico che proprio lei sia diventata il simbolo di una nuova poetica autoriale italiana nel mondo. Lei che, in realtà, desidera "spegnere il fuoco degli autori" e veder "rinascere un cinema veramente collettivo", in cui il film sia "l’opera di un noi" (come disse al Bellaria Film Festival nel 2024). Ad ammirare Rohrwacher o non è solo il New York Times stesso, con le sue recensioni, né è solo Hollywood. Forse solo l’Italia sembra – o non vuole – accorgersi del suo valore (impossibile dimenticare le sue lacrime per i complimenti ricevuti da Justine Triet la notte in cui La chimera non vinse nemmeno uno dei 13 David a cui era candidato).
La fascinazione che però Rohrwacher esercita sui colleghi registi arriva fino al sudcoreano Bong Joon-ho, solo per citare uno dei voti che la regista ha ricevuto nella classifica di esperti del New York Times. È una forza di attrazione, cioè, che attraversa le culture e raggiunge un livello più profondo della sensibilità umana, rimanendo leggibile e comprensibile oltre le differenze specifiche del pubblico. Alice Rohrwacher, cioè, racconta sempre di un tempo e di uno spazio indefinito in cui esistere. Mette in scena sentimenti arcaici e primitivi, in fondo comuni a tutti, che prendono vita attraverso metafore o miti e simbolismi naturali. Nei suoi film si attraversa continuamente il confine fra terreno e ultraterreno, in una sospensione di incredulità preziosa, creativa e immaginifica che si nutre soprattutto della marginalità. Raccontare i margini (della vita e della società) tuttavia è ben diverso dall’innamorarsene come fa la regista. È nel suo sguardo rapito – così come nella sua visione antiurbana, provinciale nel senso più positivo possibile – che emerge il tono magico e astratto dei suoi film.
Favole moderne in cui il mondo arcaico si scontra con la modernità (Le meraviglie), il bene si scontra con il male (Lazzaro felice) e la morte con la vita (La chimera). Niente però è definibile mai dentro confini netti e precisi, inetichettabile, come l’esistenza stessa. È lì, nell’indefinito, che vive l’enigma di Alice Rohrwacher.