
Un flashmob per la campagna "Libertà per Giulio Regeni"
Roma, 22 maggio 2025 – L’ultimo fiore all’occhiello, se vogliamo definirlo così, è la messa al bando in Russia, dove gli uffici di Amnesty International sono stati chiusi perché l’organizzazione, secondo la procura di Mosca, è "un centro per la preparazione di progetti globali russofobi pagati dai complici del regime di Kiev". Come ha commentato Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty: "Siamo in ottima compagnia, insieme al meglio della società civile russa, dei gruppi locali per i diritti umani, della stampa indipendente e dei movimenti Lgbtqia+". Il percorso di Amnesty è pieno di storie così, di scontri con governi di ogni colore, di attacchi incrociati e tentativi di diffamazione, e non sono vicende da prendere alla leggera, perché ogni volta chi rischia di finire nei guai sono gli attivisti del posto, le persone entrate in relazione con l’organizzazione.
La sezione italiana di Amnesty International festeggia domani i suoi primi cinquant’anni con un’intera giornata in Campidoglio a Roma e si può dire che il suo biglietto da visita, insieme con l’espulsione dalla Russia, oggetto negli ultimi tre anni di ripetute accuse di praticare crimini di guerra, è nella porzione dedicata all’Italia del Rapporto annuale 2024-2025. Il sommario comincia così: "Sono stati segnalati nuovi episodi di tortura per mano del personale penitenziario. La violenza contro le donne è proseguita a un livello pericolosamente alto. Persone razzializzate e Lgbtqia+ hanno continuato a essere vittime di razzismo e discriminazione, anche a opera di ufficiali statali. L’Italia ha tentato di inviare in Albania richiedenti asilo salvati in mare, per far esaminare la loro richiesta fuori dal paese. In più occasioni la polizia è ricorsa a un uso eccessivo e non necessario della forza contro manifestanti e ha limitato il diritto alla libertà di riunione pacifica...". Non è italofobia, naturalmente, ma il ritratto di un paese che non è affatto irreprensibile nella tutela dei diritti umani – nessun paese al mondo lo è, a dire il vero – e che si porta dietro una serie di nodi problematici di lunga durata. Amnesty serve proprio a questo: a ricordare gli aspetti più scomodi, spesso sgradevoli, della vita pubblica.
Tutto cominciò a Londra nel 1960, quando un avvocato idealista e intraprendente, Peter Benenson (1921-2005), lesse su un giornale la notizia di due studenti arrestati per aver brindato alla libertà in un ristorante di Lisbona, nel Portogallo all’epoca oppresso dalla dittatura di Salazar. Riflettendo sul caso con un gruppo di amici, Benenson concepì l’idea di lanciare una campagna lunga un anno – l’intero 1961 – con l’obiettivo, nientemeno, di ottenere il rilascio di tutti i “prigionieri di coscienza“ nel mondo. Amnesty International è nata così, viaggiando con l’immaginazione e confidando che verità e giustizia, alla fine, la spunteranno. Spesso non succede, naturalmente, ma il curriculum dell’organizzazione è ricco di risultati, cioè di prigionieri liberati, di leggi penali migliorate, di condanne a morte commutate in pene detentive e così via.
E tanti, tantissimi prigionieri di coscienza – una nozione introdotta da Amnesty – hanno testimoniato quanto sia stato importante durante la detenzione, quando ci si sente soli e abbandonati, ricevere le lettere scritte da attivisti di tutto il mondo o anche solo sapere che quelle lettere erano state inviate a governi e ambasciate. Nel 1977 è arrivato anche il Nobel per la pace, ma la gratitudine dei prigionieri di coscienza è probabilmente il riconoscimento più gratificante per gli attivisti. La militanza dentro Amnesty, un tempo, era principalmente questo: tante lettere da compilare e indirizzare a prigionieri e capi di stato e poi campagne mirate su temi specifici, come l’abolizione della pena di morte e la lotta contro la tortura. Oggi Amnesty, in Italia e nel mondo, è una voce della società civile che gioca tutte le sue carte, nella difficile lotta culturale e politica per i diritti umani, sulla propria autorevolezza. Perciò si è formato nel tempo uno staff di ricerca competente e professionalizzato, chiamato a realizzare Rapporti sulle violazioni compiute nel mondo che siano sempre ineccepibili.
Antonio Marchesi, docente di Diritto internazionale all’Università di Teramo, attivista fin dai 18 anni, a più riprese presidente della sezione italiana, ha raccontato in Amnesty International in Italia (e/o 2023) le trasformazioni avvenute in seno all’organizzazione, passata dai volantini ciclostilati e dalle raccolte di firme sotto petizioni e appelli, alle moderne campagne multimediali, alla crescente capacità di proposta su temi delicati come la libertà di manifestazione, le regole d’ingaggio delle polizie, i diritti dei detenuti, la tutela dei rifugiati, il contrasto alle campagne d’odio online. Negli anni non sono mancate, naturalmente, le critiche e le prese di distanza, con accuse via via di faziosità, di ideologismo, di militanza a sinistra, ma fa tutto parte del gioco: l’indipendenza si misura inevitabilmente sul campo.
L’impegno attorno alle violenze istituzionali al G8 di Genova del 2001, la campagna “Giustizia per Giulio Regeni”, l’approvazione della legge sulla tortura (2017) sono stati – almeno nella percezione comune – i momenti più alti per un’organizzazione che ha una vocazione “pragmatica”, come scrive Marchesi, orientata a ottenere risultati più che ad attestarsi su posizioni di principio. Le quali, comunque, ci sono e servono a indicare la rotta. "Il cambiamento – dice Alba Bonetti, presidente della sezione italiana, descrivendo la filosofia di Amnesty e anche i difficili tempi che viviamo – arriva quando è la società civile a mettersi in rete, quando sono le singole persone a unirsi e a impegnarsi. Nessun governo, di qualsiasi colore sia, riconosce i diritti se non è sollecitato. Piuttosto, quando non è sollecitato, tende a cancellarli".