Giovedì 18 Aprile 2024

La pace affidata ai bimbi: il testamento di Za

Zavattini e l’impegno contro la guerra: un assillo costante fra cinema e scrittura. Lottò per introdurre un’ora di discussione nelle scuole

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di Lorenzo Guadagnucci

Se pensiamo agli intellettuali “engagé” del nostro dopoguerra, Cesare Zavattini non è certo il primo che viene in mente. Altri furono ben più esposti di lui: schierati coi partiti di sinistra, o impegnati a firmare appelli e interventi sull’attualità politica. Eppure, il poliedrico Za, lo sceneggiatore principe del neorealismo, mentre era alle prese con una copiosa produzione di film, romanzi, poesie, dipinti (e lettere private) assecondando un’indole creativa quasi senza confini, mantenne nei decenni un impegno costante attorno al tema che reputava più importante di tutti: la pace. Sì, Zavattini è stato un tenace quanto singolare pacifista. Non era tipo da prendere posizioni superficiali, né era interessato a logiche di semplice schieramento; credeva davvero che la società del suo tempo – gli intellettuali come i cittadini comuni – dovesse impegnarsi per cancellare dall’orizzonte ciò che l’umanità aveva vissuto nella prima metà del ‘900, con le due rovinose guerre mondiali.

Ma Zavattini non sarebbe Zavattini se si fosse accontentato di questo, che pure non era poco. Za aveva l’ossessione di capire che cosa fosse, realmente, la pace, e come la si costruisce. Era ben cosciente dei percorsi della storia, delle logiche di potere, di quanto la violenza e l’assurdo siano parte della condizione umana. In una lettera del 1956 a Giorgio Fanti, dirigente comunista, in quel momento segretario del Movimento italiano per la pace, precisa il suo pensiero e quindi il suo assillo: "Bisogna finalmente fissare che cosa intendiamo per pace, se si vuole intervenire tutte le volte che la pace è minacciata, ma non solo nei fatti grandiosi (…) Difendere la pace è un’operazione di analisi ininterrotta delle situazioni sotto le quali cova la guerra". Nei suoi scritti dedicati al tema – ora pubblicati da La nave di Teseo col titolo la Pace. Scritti di lotta contro la guerra, a cura di Valentina Fortichiari – parla dunque di democrazia, di lotta contro le ingiustizie e le sopraffazioni; agire per la pace, sostiene, non è solo contrastare la minaccia atomica o denunciare le guerre guerreggiate in questa o quella parte del mondo. Il pacifismo, scrive, "è un battistrada, deve servire come sveglia continua, deve arrivare un momento prima e segnalare gli errori e i dolori, e non dopo, con delle tardive querimonie".

Zavattini era un anticonformista e un visionario. Uno che rifiutava di "fare dell’antifascismo pubblico", per esempio firmando un manifesto di intellettuali di sinistra nell’estate ‘44, perché, come scrisse al dirigente del Pci Mario Alicata, "io che per vent’anni né vidi né capii, e quando capii non agii; e solo da un anno ho mosso la mia coscienza, non posso oggi fare l’antifascista". Era un intellettuale che innervò la sua intera produzione dell’ideale democratico e pacifista che l’animava, ma concepì anche progetti specifici, spesso – a dire il vero – non andati in porto...

Già nel ‘46, a conflitto appena terminato, scrive La guerra, un soggetto cinematografico rimasto inedito, la storia di una coppia di sposi che sembra convincere “il Capo“ (metafora del potere in quanto tale) a interrompere l’assurdità della guerra e invece finisce annientata sotto una bomba; la frase finale, tragica e sarcastica, dice del realismo politico di Za: “E morirono eternamente felici”. Negli anni Sessanta propone ai cineasti di tutto il mondo di realizzare brevi filmati per produrre “Cinegiornali per la pace” da trasmettere in ogni dove, anche in tv (che pure non amava e anzi criticava per la fatuità dei suoi programmi). È del ‘68 il monologo incompiuto Fare una poesia alla vigilia della guerra, nel quale si interroga così: "In questo momento in qualche parte della Terra stanno morendo tanti, tanti fanciulli e noi cosa facciamo? Nulla". Ma fra i tanti, il progetto che gli sta più a cuore, è l’ora di pace nelle scuole, perché – spiegherà in una Lettera ai bambini italiani del 1985 – "sono sempre stato convinto che dai sei ai dieci anni siete intelligentissimi, forse più che dopo, e per istinto sapete da quale parte sia il giusto e l’ingiusto".

La fiducia – o forse la speranza – nei bambini fu l’ultima sua frontiera, cosciente com’era, negli ultimi anni di vita, di non essere riuscito, come persona ma soprattutto come collettività, a mettere davvero a fuoco il concetto di pace, nella pienezza alla quale fin dall’inizio aspirava. "La parola pace – scrive nel 1986 nella prefazione a un Libro sulla pace realizzato da un gruppo di ragazzi – è usata e abusata. Certi manifesti, certi striscioni servono a poco. Anzi, ci allontanano da un rapporto responsabile con la parola. (…) Manchiamo di coraggio e manchiamo di paura. Tra i due estremi frequentiamo un riformismo morale diventato ormai abitudine. Cominciamo dall’infanzia a non rendere edotto il nostro prossimo della realtà del massacro che compiamo regolarmente". Sono passati tanti anni ma sembra che parli di oggi: è il testamento di un pacifista tanto tenace quanto esigente, e quindi insoddisfatto.

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