Martedì 23 Aprile 2024

La lunga marcia dei Cherokee verso il Congresso

Kimberly Teehee è la nativa che rivendica un seggio (senza diritto di voto in aula), in nome di un trattato del 1835 mai applicato

di Cesare De Carlo

"Il mio popolo piange, privato della terra dei nostri avi, del futuro, della speranza...". Così scriveva Koo- wis-gu-wi, grande capo dei Cherokee. Era il 1838. La sua tribù era in marcia nel gelo di un terribile inverno lungo quello che sarebbe passato alla storia come il “Sentiero delle Lacrime“. Molte lacrime. Tante da coprire le migliaia di miglia dalla Georgia sino all’Oklahoma, ricorda Kimberly Teehee. Di questa donna, Cherokee purosangue, si occupano ora i giornali. Non un caso. L’8 novembre gli americani sono chiamati a rinnovare l’intera Camera dei deputati e un terzo dei cento senatori. E Kim vuole entrare nel nuovo Congresso, seppur senza diritto di voto.

Non sarebbe un’eccezione. La Camera ha già sei deputati di questo tipo: quelli che rappresentano il Distretto di Columbia (la capitale Washington DC), Porto Rico, Samoa americane, Guam, le Isole Marianne, le Isole Vergini americane. E non sarebbe nemmeno una pretesa ingiustificata. C’è un trattato a fornirle piena legittimità. Fu firmato nel 1835, tre anni prima di quella deportazione che vide morire di stenti 5mila dei 16mila Cherokee. Trattato disatteso per quasi due secoli, come del resto quasi tutti gli altri 375 trattati che i governi federali di Washington stipularono con le tribù indiane (come allora si diceva). In nessun altro tuttavia figurava la concessione strappata da Koo-wis-gu-wi, quella di una rappresentanza in Congresso.

Kim ora la rivendica. E poi Washington non è più una novità per lei. L’ex presidente Obama l’aveva già voluta al suo fianco come consigliere per i rapporti fra l’Unione e le nazioni native-americane (nazioni vere e proprie e non semplici comunità). È una giovane donna. Robusta, lineamenti indigeni di un’antica etnia. "Mi dicono – afferma – che sono discendente del Grande Capo". Ma lei per prima non ci crede. Non potrebbe essere più diversa da Koo-wis-gu-wi, bianco, alto, occhi azzurri. Nel ritratto che pende dalla parete del suo studio, è in marsina, severo, composto come un Lord inglese. E infatti era scozzese. Il vero nome era John Ross e così si firmava. Figlio di un immigrato. Ma già da adolescente aveva deciso: sarebbe stato un Cherokee e non il figlio di un pioniere finito nel Far West per cacciare i bisonti e cercare l’oro.

Già, l’oro. La sua scoperta segnò la condanna di quella nobile tribù. Fu nel 1829. Un giornale della Georgia riportò la notizia. Centinaia e migliaia di pionieri bianchi si spinsero in territorio Cherokee. Sorpresa. Non trovarono i villaggi di fango e paglia e nemmeno gli accampamenti con i teepee (le tende), ma case in muratura, scuole, banche, piccole aziende. Veniva stampato persino un giornale bilingue. Allora non era vero che tutti gli indiani erano selvaggi. La tribù viveva in armonia con le fattorie dell’uomo bianco. Allora non era vero che "il solo indiano buono è un indiano morto"’, come recitava la frase attribuita al generale Sheridan.

Ma anche l’allora presidente Andrew Jackson era un duro. Era stato un “Indian Fighter“, un combattente di indiani. Fu lui a volere l’Indian Removal Act che diede una finzione di legalità alla rimozione forzata dei Cherokee. I quali sotto la minaccia delle armi furono sradicati dalla Georgia e spinti a Ovest verso il Tennessee e poi ancora più a ovest al di là del grande fiume, verso l’Arkansas e infine verso l’Oklahoma. I loro territori furono dati agli invasori. Lo stesso Ross, rientrato da Washington dove aveva tentato di ottenere garanzie, trovò la casa occupata. Era stato espropriato durante la sua assenza.

Il “trasloco“ fu una vera tragedia. Pochi i carri, poco il cibo, poche le coperte. Assalti dei banditi e di tribù ostili. Fame e malattie. Ne muore anche la moglie di Ross. Stessa sorte toccò ai Chikasaw, ai Choctaw, ai Creek, ai Seminole. I Seminole vendettero cara la pelle. Erano combattenti formidabili e avevano il vantaggio di conoscere bene le paludi della Florida. Ma alla fine dovettero cedere. Anche loro spinti a ovest del Mississippi negli aridi territori del sudovest.

Oggi la nazione Cherokee occupa gran parte dell’Oklahoma. Si è rifatta una dignità. Ha recuperato la sua storia. È di nuovo il "nostro paese, un focolare, una identità". Così aveva parlato Koo-wis-gu-wi con il pianto nel cuore mentre la sua gente marciava verso l’esilio e la morte.

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro