La guerra dimenticata degli italiani in Corea

La missione dell’ospedale da campo della Croce Rossa nel libro di Salvatore Poloni: "I medici guidati da mio padre furono eccezionali"

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di Simone Arminio

Oggetto della Storia è l’Uomo, diceva Marc Bloch, o meglio: gli uomini. Vero, specie se la storia in questione è quella della guerra di Corea. Dimenticata dai libri, ma su cui le storie dei singoli possono ancora fare luce.

Venticinque giugno 1950: nel nuovo mondo diviso in due, per la prima volta l’Occidente e il blocco sovietico si preparano ad affrontarsi. E l’Italia? Divisa in due blocchi a sua volta, dopo l’attentato a Palmiro Togliatti e la guerra civile scongiurata (così piace dire) dalla vittoria di Bartali al Tour de France, tenuta fuori dall’Onu per il veto incrociato di Usa e Russia che se ne contendevano l’egemonia, "su invito degli alleati a dare una mano in Corea, mandò una lettera al Sud e una al Nord, per annunciare l’invio di un ospedale di campo - ricostruisce Salvatore Poloni, autore del libro La partecipazione italiana alla guerra di Corea -. Seoul l’accolse con gratitudine, Pyongyang avvertì che ci avrebbe fatto prigionieri".

Ed ecco che l’Italia, in bilico tra due mondi, decise finalmente da che parte stare. Poloni, avvocato e banchiere, condirettore generale del banco Bpm, alla storia degli italiani in Corea si è appassionato fin da bambino.

Merito di suo padre Pietro, ufficiale medico della Croce rossa italiana, che di quella missione italiana fu tra i protagonisti. Settantuno volontari, tra medici e infermieri, e un ospedale, il numero 68 del Corpo militare della Cri, che il destino posizionò proprio sulla linea del fuoco: Yong Dung Po, un sobborgo fuori dalla capitale Seoul che, a pochi chilometri dal fronte di fuoco del 38esimo parallelo.

"L’ospedale degli italiani fu allestito in una scuola che esiste tuttora - ricostruisce Poloni, che spesso è stato in Corea alla raccolta di informazioni -, dove la memoria del nostro passaggio è tenuta viva da una stele". Ed ecco il punto: dappertutto, fuorché in patria, l’apporto sanitario degli italiani in Corea è ancora oggi celebrato, e Poloni dal padre ha preso il testimone di una memoria che, quasi 70 anni dopo, viene annualmente perpetrata in ritrovi internazionali, lettere, encomi e relazioni umane tra i coreani e i reduci della guerra. "Gli italiani dell’ospedale da campo 68 furono gli angeli venuti a salvare la vita ai coreani", afferma commosso il tenente colonnello Jung Beungche, addetto per la Difesa di Corea in Italia nella prefazione del libro.

Un racconto che alla storia ufficiale, ricostruita con perizia, intreccia i ricordi familiari e le memorie di carta riportate in Italia da quel medico instancabile.

"In poco più di mille giorni di permanenza - spiega Poloni - in 71 tra medici e infermieri gestirono quasi 229mila prestazioni ambulatoriali e gestito 131mila giornate di degenza per 7mila ricoverati, circa 3.200 interventi chirurgici, 17mila prestazioni radiologiche, 8.400 analisi, 1.100 interventi odontoiatrici e affrontarono un disastroso incendio che rase al suolo l’ospedale e un disastro ferroviario".

Il ricordo più bello? "Un ragazzo che faceva loro da interprete e che a un certo punto si sposò durante la guerra e volle mio padre come testimone. Continuarono a scriversi poi a lungo". Oppure le decine di foto di bambini salvati in quei tre anni. Quelli che Indro Montanelli, inviato al fronte per il Corriere della Sera, descriveva mentre imploravano aiuto dopo gli attacchi nemici.

Urlando in italiano, la lingua dei medici che li avrebbero salvati.

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