Mercoledì 24 Aprile 2024

La forza senza fine del teatro

Claudio

Cumani

Vengono tutti dal teatro: Mandrake, lo squinternato scommettitore del film “Febbre da cavallo”, il maresciallo Rocca, icona della tv nazionalpopolare. Viene tutto dal teatro il patrimonio attorale di Gigi Proietti, l’artista che ha insegnato all’Italia con “A me gli occhi, please” l’abilità di giocare fra alto e basso, colto e ridanciano, nobile e plebeo. E che ha sempre dimostrato come teatro popolare voglia dire in primo luogo coltivare nuovi pubblici e avvicinare spettatori altri alla scena. È un’idea, questa, che Proietti ha inseguito lanciandosi in tournée da scavalcamontagne, realizzando un teatro (il Globe) nel bel mezzo del verde di Villa Borghese, creando una scuola al Brancaccio da cui è uscita la nuova generazione della comicità nostrana. Non ci pensava proprio agli inizi di fare l’attore, Gigi. Ma poi sono stati gli incontri fortunati (con registi come Cobelli e Calenda, ad esempio) a fare la differenza ma è stato soprattutto il clima del tempo (il teatro sperimentale delle cantine romane) a indirizzarlo sulla nuova via. Senza steccati, però. Perché lui è stato uno dei pochi capaci di passare da “Alleluja brava gente” al fianco di Rascel alla “Cena delle beffe” accanto a Carmelo Bene. E allora via, fra tendoni e palasport, con Kean e Belli, Fregoli e Petrolini, Shakespeare e Trilussa. Pronto a catturare il sorriso, lesto a indurre la lacrima. Non ha mai messo una maschera. Gli bastavano un foulard colorato sull’ampia camicia bianca, una smorfia, un baule, un accenno del corpo. E la scena cambiava. Un tocco di illusionismo che ci ha avvolto per decenni e che ora ci mancherà terribilmente.

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