Mercoledì 24 Aprile 2024

La Capria, lo sguardo di Napoli sul mondo

Morto a 99 anni lo scrittore di “Ferito a morte“. Un intellettuale eclettico: dal premio Strega al Leone d’oro per “Le mani sulla città“

Migration

di Lorenzo Guadagnucci

Sandro Veronesi, in un’introduzione (per Mondadori) al libro simbolo di Raffaele La Capria, scrive che Ferito a morte "va letto d’un fiato, in uno di quei meravigliosi pomeriggi trascorsi senza far altro che leggere, magari all’aperto, magari in giugno". La Capria, Dudù per gli amici, se ne è andato quasi centenario proprio in un giorno di giugno, quasi a suggerire – come omaggio a chi voglia onorare la memoria di uno scrittore così singolare del nostro ’900 – di prendere o riprendere in mano quel vecchio romanzo, uscito nel 1961 e subito premiato con lo Strega.

Non è un romanzo facile, Ferito a morte, in buona parte dedicato al racconto di un’unica giornata estiva, nell’estate 1954, di un gruppo di giovani napoletani della buona borghesia. Sono giovani indolenti, calati nella bellezza degli elementi naturali fra il mare, gli scogli, le isole di fronte alla città; giovani che anelano di vivere la “bella giornata“, espressione di un senso di armonia più agognato che reale; giovani che si preparano al futuro senza troppe passioni. Ma la trama, nel romanzo, non è così importante, perché La Capria, con quel suo (quasi) esordio così felice, a 39 anni di età, rompeva con la tradizione del romanzo novecentesco e si lanciava in tecniche narrative poco frequentate, come il flusso di coscienza, la polifonia dei personaggi, il poco peso attribuito alla psicologia, la preferenza per una concezione sincronica del tempo. Tutto insieme.

La Capria, dunque, fin dal principio si è proposto come uno scrittore “nuovo“. Eppure è stato subito etichettato come “scrittore napoletano“ e tuttora è menzionato e ricordato così. E dire che La Capria ha avuto con la “napoletanità“ un rapporto difficile e spesso conflittuale. In un intervento tenuto alla Sorbona nel 2003, poi pubblicato nel libro Introduzione a me stesso (Elliot editore), un po’ se ne lamentava: "Uno scrittore per il semplice fatto di essere nato a Napoli viene definito “scrittore napoletano“ e l’aggettivo napotelano gli viene imposto come un marchio di fabbrica (...) Io però dico – senza nulla voler rinnegare della mia identità – che i miei libri, anche quando parlano di Napoli, parlano prima di se stessi, cioè di come sono scritti, e poi di Napoli".

E parlano, potremmo aggiungere, dell’evoluzione complessiva della società italiana, perché La Capria quando definiva la napoletanità, non pensava solo al Vesuvio e a Mergellina. Per esempio, rifletteva così sulla Rivoluzioine fallita del 1799, evento ai suoi occhi decisivo nella storia della città: "Napoli diventò la città della piccola borghesia, una piccola borghesia dominata dalla paura della plebe, che per restaurare a ogni costo l’armonia perduta o solo sognata, si mise a recitarla, e così creò poco a poco una forma di civiltà fondata sulla recita collettiva". Con la “modernizzazione“ sempre rimandata. Né si può dire che parlasse solo di Napoli, La Capria, quando collaborò con Francesco Rosi alla sceneggiatura di Le mani sulla città, feroce ritratto di una borghesia predatoria e di una classe politica corrotta, indifferente al bene comune; un ritratto di trasformazioni urbanistiche, sociali, etiche in atto ben oltre i confini dell’antica capitale dello stato borbonico.

La Capria lasciò Napoli già negli anni ’50 al tempo del sindaco Achille Lauro e del suo populismo straccione; si spostò a Roma e da lì diventò un acuto e raffinato osservatore di trasformazioni economiche, politiche, sociali che gli parevano – potremmo sintetizzare così il suo pensiero – goffe e deludenti.

In un divertente intervento scritto per i suoi novant’anni e pubblicato su Il Foglio, si rivolse al “lettore italiano“ per rimproverarlo e annunciare la sua rinuncia definitiva alla scrittura. "Caro lettore italiano, io e te, per la maggior parte del tempo della mia vita, non ci siamo intesi. Ho scritto almeno una ventina di libri buoni, secondo me, e uno solo, Ferito a morte, ha venduto in modo soddisfacente, qualche centinaio di migliaia. Non ti vergogni? (...) E ti pare bella la lista delle tue preferenze, quella dei libri più venduti, che – scusa se te lo dico con franchezza – sembra un documento della tua insipienza? Cerca di evolverti! Fai qualche sforzo!"

Scherzose invettive a parte, finisce che l’immagine di Napoli come città della "mezza modernità" (così la definiva) diventa un bilancio, un resoconto delle promesse non mantenute dall’Italia del dopoguerra, rinata sulle macerie ma incapace di uscire dalla morsa – tante volte criticata da La Capria – dell’acquiescenza da un alto, del consumismo e della speculazione dall’altro. E tuttavia Napoli, per l’ormai vecchio Dudù, era ancora il luogo del possibile: vedeva la città come un trait d’union (fra la civiltà nord-europea e quella mediterranea) e "un avamposto dell’Europa in un Mediterraneo la cui situazione è diventata sempre più critica". Napoli, dunque, che rimane una città – secondo la sua più nota definizione – che "ti ferisce a morte o ti addormenta. O tutte e due le cose insieme".

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro