La Capri cosmopolita di Anna Kanakis "Racconto un poeta fragile e infelice"

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di Giovanni Bogani

"Stavo passeggiando per Capri: in realtà mi ero persa, fra le stradine sotto le rovine della villa di Tiberio. Ero lì, fra questi vicoletti con le agavi e i muretti a secco, quando d’improvviso mi si apre davanti agli occhi questo paradiso bianco. Come un tempio che si tuffava sul mare. Villa Lysis". Anna Kanakis ci racconta come è nato, in lei, quel coacervo di pensieri, riflessioni, emozioni che poi sarebbe diventato il romanzo Non giudicarmi, che l’autrice presenterà questo pomeriggio, a Bologna, alle 18.30 alla libreria Coop Ambasciatori, dialogando con Vincenzo Branà. Il romanzo, edito da Baldini+Castoldi, immagina – con un racconto in prima persona – l’ultimo giorno di vita di Jacques Fersen, poeta francese omosessuale che, a Capri, pose fine ai suoi giorni nel 1923.

"C’era una ragazza che vendeva biglietti d’ingresso. Ho pagato, sono entrata – racconta Anna Kanakis – Ho visitato questo luogo da sogno: sono arrivata fino alla cosiddetta ‘sala dell’oppio’. Sono uscita, mi sono seduta sui gradini quasi a picco sul mare. Ho aperto lo smartphone e ho cercato la storia di chi vi aveva abitato, e qui aveva posto fine ai suoi giorni, con un gesto plateale e tragico: concedendosi una dose letale di cocaina. Così ho incontrato la storia di Jacques Fersen, e me ne sono innamorata".

Anna, che cosa la affascinava di questo personaggio? La sua vita, la sua arte, la sua fine?

"Più di tutto, il suo cammino verso l’autodistruzione. La sua sofferenza: per stare in piedi, aveva bisogno di tre grammi di cocaina al giorno. Per dormire, usava l’oppio, o meglio il ‘benarès’, che aveva scoperto in Cina. Era un uomo fragile, innamorato della bellezza: poeta, senza avere il talento cristallino di un Cocteau. Innamorato degli uomini, in un tempo in cui non era facile amare persone dello stesso sesso".

Il motivo per il quale Fersen lasciò la Francia.

"Esatto: era finito anche, per sei mesi, alla Santé, il carcere parigino. Proprio come, dall’altra parte del mare, era accaduto ad Oscar Wilde. Così, Fersen trovò a Capri un ambiente più aperto, un mondo di intellettuali, di artisti, di persone libere che avevano scelto l’isola come loro rifugio. Capri era un luogo di incontro per alcune delle menti più limpide della Mitteleuropa, per pittori, politici e per uomini che vivevano in modo un po’ diverso dagli altri. Mentre scrivevo questo libro, mi sono innamorata di Capri".

Usa, stilisticamente, l’io narrante. In altre parole, si è calata totalmente nell’anima di Fersen.

"Sì: come dico spesso, ho indossato i suoi pantaloni. È qualcosa che forse deriva dalla mia precedente attività di attrice: per interpretare un personaggio, devi viverlo, devi poter raccontare quello che il personaggio vede e prova. Allo stesso modo, ‘interpreto’, mi metto addosso i personaggi dei miei romanzi. Anche se, come in questo caso, si tratta di un uomo innamorato di altri uomini. La sessualità maschile la conosco in quanto donna: conosco la passionalità, a volte la mancanza di razionalità, dell’uomo. E ho immaginato questa sensualità, questo desiderio che si fa anche dolore, malinconia, nell’ultimo giorno di vita di Fersen".

Ha detto "nella mia precedente attività di attrice". Ma la considera davvero una pagina chiusa della sua vita? Non è tentata dal set?

"Assolutamente no! Ho fatto gli ultimi due film tv con due registi straordinari, Giulio Base e Stefano Reali. Ma quando è arrivata a casa la scatola di cartone con le prime copie del mio primo romanzo, ho sentito fra le mani una creatura mia. Di quella creatura ero madre, regista, attrice. Una sensazione indicibile, irripetibile. Scrivere un libro è un viaggio totalizzante e, per me, meraviglioso. Mi auguro che, in qualche modo, lo sia anche per chi si avvicinerà a questo libro".

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