L’Ultimo Paradiso di Scamarcio è a casa "Torno alle mie radici, con occhi da papà"

di Beatrice Bertuccioli

La paternità non l’ha fatto rallentare. Negli ultimi anni Riccardo Scamarcio ha lavorato senza sosta, passando da un set all’altro e l’arrivo di una figlia, Emily, a luglio, assicura che non ha cambiato i suoi ritmi. Del film L’ultimo Paradiso, da venerdì su Netflix, è protagonista, produttore e cosceneggiatore insieme al regista Rocco Ricciardulli. Ispirato a una vicenda vera accaduta alla fine degli anni ’50 in Lucania, racconta di Ciccio Paradiso, donnaiolo e ribelle, che sogna per sé e per gli altri contadini un mondo diverso, libero dallo sfruttamento e dalla rassegnazione. Girato tra Gravina di Puglia, Bari e Trieste, ha nel cast anche Valentina Cervi e Gaia Bermani Amaral.

Scamarcio cosa l’ha colpita di questa storia da decidere anche di produrla?

"È per me una storia importante perché parla di identità, di rapporto con le proprie radici, del senso di appartenenza alla propria terra, al proprio luogo, con la dinamica paradossale che chi resta, sogna di andare via, e chi è andato via, a un certo punto è preda della nostalgia e non può fare a meno di tornare. Una dinamica in cui penso che molti possano riconoscersi".

Lei ha lasciato la sua Puglia per fare l’attore, sente un po’ suo questo tema?

"Non è per me un ritorno alla mia terra, perché non me ne sono mai andato, ho sempre mantenuto un legame forte con i luoghi dell’infanzia. Nel film ci sono cose che io ho vissuto, come la nonna che fa le orecchiette insieme al nipotino. E abbiamo utilizzato posti che conosco molto bene, luoghi della Murgia molto suggestivi, come quelli dietro a Castel del Monte dove andavo in cerca di funghi con mio padre. Sono suoni, sensazioni, atmosfere che ho vissuto anche io da bambino, ma magari anche gente che è andata a vivere a Boston o a Chicago ritroverà".

Si parla di paternità, anche questo un tema che ora la riguarda.

"Ciccio Paradiso ama suo figlio con delle modalità che conosco molto bene. Mio padre non era molto affettuoso ma aveva ugualmente un modo di avvicinarsi a me toccandomi le guance e, soprattutto, parlandomi in dialetto, il che gli consentiva di superare il pudore che c’è tra un padre e un figlio, e di creare un rapporto speciale. Ma ero stato un padre già in altri film, in Ladro di giorni e nella Prima luce, film nei quali questo amore ancestrale di un padre per il figlio è ben rappresentato, seppure con sfaccettature diverse".

Ma ora che è diventato padre, quali sentimenti ha scoperto?

"Sì, sono diventato papà da un po’ di tempo e quindi ho capito che l’amore per un figlio, è un amore che non ti prevede. Nel senso che tu ami qualcuno, ma tu non ci sei. È al di là di te".

La paternità l’ha portata a rallentare i ritmi di lavoro?

"No, non ho rallentato affatto. Anzi, sto accelerando (ora è sul set del Caravaggio diretto da Michele Placido, con Isabelle Huppert, ndr). Porto il cinema anche a casa, quindi non ci sono pause. Per me fare un film rimane la cosa più bella che c’è. E spero che mia figlia, quando crescerà, capirà anche lei che il cinema è meglio della vita".

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