Sabato 20 Aprile 2024

L’autocondanna del senso di colpa

Giovanni

Morandi

Tutte le ansie sono un tormento ma quella è la peggiore. La più oppressiva. È una percezione che magari non ci riguarda direttamente, è solo temuta, ma il solo pensiero che possa capitare a noi basta a inquietarci. Questo spiega la sofferenza di quanti ne sono colpiti o di quanti temono di esserlo. Basti pensare alle recenti irritate autodifese di Briatore e alla sofferenza di Barbara Berlusconi per la malattia contratta dal cavaliere. "Non è colpa mia", hanno detto entrambi, ribellandosi al senso di colpa che deve averli schiacciati appena si è ipotizzato potesse essere partito da loro il contagio dell’amico, nel primo caso, e del padre nel secondo. Il senso di colpa è un sentimento che conosciamo tutti, anche se non ci è capitata la stessa situazione ma l’abbiamo immaginata e temuta. Tutti abbiamo avuto almeno una volta il pensiero terribile di poter diventare involontariamente causa di contagio dei nostri cari e delle conseguenze che questo potrebbero provocare.

Un incubo. Perché il senso di colpa provoca uno stato di inquietudine peggiore e più lacerante di quello della colpa. Per una semplice ragione. Di fronte al senso di colpa siamo noi stessi a giudicarci, diciamo pure a condannarci, mentre la colpa ci consente di confrontarci con chi l’ha subita e che potrebbe anche perdonarci. Mentre nel senso di colpa non c’è perdono. Perché chi giudica è il più spietato dei tribunali, siamo noi stessi. La colpa è riparabile, dal pentimento o dal perdono, e non a caso “pentimento” in ebraico si dice teshuva che significa ritorno, cammino, mutazione. Nel senso di colpa invece non c’è possibilità di cambiamento. È una condanna definitiva. Anche se il presunto colpevole non ha colpa.

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