Venerdì 19 Aprile 2024

Jerry Calà: "Il politicamente corretto non fa ridere. Capito?"

Jerry Calà torna con un film: "Ti mettono in croce per una parola, ti attaccano se tocchi un cane. La commedia non è più libera"

Jerry Calà

Jerry Calà

Roma, 20 ottobre 2019 - Si chiama Jerry Calà, in omaggio a Jerry Lewis. Da ragazzino, lo imitava alla perfezione, e quel soprannome gli è rimasto addosso. Del resto, Calogero Alessandro Augusto suonava più complicato, per un comico. Così, Jerry Calà ha attraversato quarant’anni di spettacolo, attore e regista, cabarettista coi Gatti di Vicolo Miracoli e attore drammatico da solo, nel Diario di un vizio di Ferreri. E proprio ora è tornato alla regia, con un film in cui ha riunito il gruppo comico/teatrale dei suoi vent’anni, con Umberto Smaila, Ninì Salerno, Franco Oppini. Nel cast anche Antonio Catania, Andrea Roncato e Mauro di Francesco. Una reunion di un mondo intero. Il film si chiama Odissea nell’ospizio, ed è uscito in questi giorni sulla piattaforma Chili.

Calà, che tipo di film ha fatto?

"Un film divertente, pieno di equivoci, di situazioni buffe, in cui ci prendiamo in giro per primi noi stessi. Una commedia come ormai non se ne vedono più".

La comicità non è più quella di un tempo? Cosa vuole dire? "Voglio dire che oggi si cerca sempre, anche nel genere comico, di raccontare storie “sociali”, con un messaggio. Cosa che va bene: ma la gente si aspetta commedie di puro divertimento, che facciano vedere però la vita reale della persone".

Cioè? "Nei nostri film, noi parlavamo come parlavano i ragazzi. Questo è stato il segreto del nostro successo. Oggi, le nostre espressioni sarebbero definite scorrette, nel novanta per cento dei casii. Oggi il modo in cui si parla nei film non rispecchia la vita reale".

Ma c’è una commedia di questi anni che le è piaciuta? "Mi piacciono i film di Zalone, perché lui se ne frega di tutto, se ne frega di essere politicamente corretto, e questo alla fine paga. I suoi film incassano sessanta milioni, e agli altri vanno le briciole".

Solo Zalone, dietro di lui il vuoto? "Mi è piaciuto anche Smetto quando voglio, perché ha un’idea trasgressiva, divertente: dei brillanti laureati che si danno al commercio di droga per sconfiggere le umiliazioni e la disoccupazione. Un tentativo interessante, e infatti la gente è andata a vedere il film, anzi i film".

Il cinema italiano, è vero, incassa briciole. Perché? "Perché ha paura di confrontarsi col genere. Noi eravamo bravissimi a fare il cinema di genere: abbiamo fatto i western meglio degli americani, e così i polizieschi. Tarantino ci ha copiati, non a caso, e Sergio Leone è stato un modello per tanti registi. Anche la commedia sexy è stato un genere che abbiamo quasi inventato noi in Italia, e che ha avuto un successo immenso. Oggi abbiamo paura di fare film di genere. Si girano storie cervellotiche, con mille paletti, mille paure di essere scorretti, e alla fine non funzionano".

Oggi chi comanda nello spettacolo? "Non c’è dubbio: oggi comandano le televisioni. E le televisioni oggi non mi chiamano. Ma io non sono perduto, per fortuna: faccio teatro in continuazione, a trecentosessanta gradi. Suono, canto, recito. E c’è tanta gente che viene a vedermi".

Che effetto fa tornare a lavorare insieme, ritrovare i Gatti di Vicolo Miracoli? "In realtà non ci siamo mai persi davvero di vista. Siamo rimasti in contatto, come rimangono in contatto i parenti. Eppure sono andato via dal gruppo nel 1982, sono quasi quarant’anni. Ma i Gatti sono i miei fratelli, i sentimenti restano sempre molto forti".

Un gruppo di quattro amici che organizza scherzi. In realtà viene in mente un modello indimenticabile della commedia italiana, “Amici miei” di Mario Monicelli. "Non lo avevamo in mente, ma certo che Amici miei è un punto di riferimento costante, ce l’hai dentro quell’idea del gioco dolceamaro, e anche se non ci pensi riaffiora in molte delle cose che fai".

Quattro amici anziani in una casa di riposo… Ma non è che cerca un pubblico di coetanei? "No, per fortuna ci sono tanti ragazzi che mi seguono. Lo vedo nelle centinaia di serate che faccio in giro per l’Italia nelle piazze, con il mio show musicale".

La soddisfazione più grande, in carriera? "Essere stato premiato da un signore che si chiama Wim Wenders, a Berlino, per il film Diario di un vizio di Marco Ferreri. Aveva visto il film, e gli aveva attribuito un premio internazionale, importante. Non sapeva niente di me, dei film estivi, ma lo aveva colpito la mia interpretazione in un film drammatico".

La critica cinematografica è stata sempre poco tenera con lei e con i suoi film. Un rapporto difficile, diciamo… "La critica deve giudicare il film per quello che è: se è un film comico, deve giudicare se fa ridere oppure no, ma non se veicola grandi messaggi, se ha delle aspirazioni filosofiche… Il problema è che poi la critica influenza anche il cinema che viene fatto".

In che modo? "I registi e gli attori cominciano a girare pensando a quello che potranno dire i critici, e perdono spontaneità, forza e freschezza".

Come dovrebbero girare? "Con più libertà, senza preoccuparsi di niente. Oggi se in un film dai un buffettino a un cane, si scatenano le associazioni degli animalisti; se usi una certa parola, ti mettono in croce. Tutto deve essere politicamente corretto, tutto deve essere misurato col bilancino. E la comicità ci perde. La comicità per sua natura deve essere cattiva, non può essere rispettosa di tutto e di tutti".

Tutto è stato «normalizzato»?

"Oggi, se usi una parola fuori posto ti mettono in croce".

E Jerry Lewis? "Non l’ho mai incontrato", confessa. "Ci siamo sfiorati, una volta, al festival di Berlino, Ma non ho avuto il coraggio di andare da lui e presentarmi. Così, è rimasto per me un mito lontano". 

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro