"Io, Pupi, regista per un miracolo d’amore"

Avati e il film “Lei mi parla ancora” su Giuseppe Sgarbi. "Nei suoi scritti ho scoperto la poesia di chi è riconoscente verso la vita"

Migration

di Pupi

Avati

Ci sono delle persone facili da amare, sono le persone che nella mia vita, senza ricorrere ad alcun artificio, si sono rese da subito disponibili a un livello di confidenza che ha rinunciato a mettere in campo quegli anticorpi indotti da un’educazione ricca più di diffidenze che di aperture. Quella cultura che vede nel prossimo più insidie che opportunità. Confidare nel mondo, e quindi negli altri, è lezione pericolosa e tuttavia straordinaria.

Così rara nell’oggi. Eppure le persone migliori che ho incontrato hanno fondato la loro vita su quella miscela preziosa di buon senso e di ingenuità, su quel candore indispensabile per propiziare i miracoli. Pasolini e Tognazzi avevano questo dono, lo stesso di Lucio Dalla, lo stesso che ho riscontrato in Giuseppe Sgarbi.

L’esporsi senza difese a raccontare la propria esistenza, senza alcuna rete di protezione, mantenendosi continuamente aderente all’essenza delle cose, senza sbandamenti o incertezze.

Leggere quello che nell’ultimo tratto della sua vita ha scritto di sé Nino Sgarbi me l’ha avvicinato in modo profondissimo.

L’aver scambiato (al termine della visione di uno dei miei tanti film che la sensibilissima Elisabetta gli mostrava) quelle frasi di commento così essenziali e tuttavia potenti, di quella gene- razione di esseri umani che parlava poco ma che faceva tanto, mi ha fatto intuire un’onestà intellettuale intrepida, che osa dire l’indicibile.

È sufficiente leggere poche pagine di uno dei suoi libri per convincersi di quanto Nino Sgarbi sia restato immune dal contagio davvero pandemico dell’omologazione.

È sufficiente per essere sedotti da una visione delle cose del mondo che non ammette compromessi, grazie anche alla capacità di Giuseppe Cesaro, che di questa esperienza gli fu leale complice, di cogliere ogni sfumatura della sua narrazione.

Tutto in queste pagine è ricondotto all’essenziale, distante anni luce dalla parassitarietà dell’oggi, dove al fare si è sostituito il dire, alla verità, che non è mai relativa, l’opinione, che lo è sempre.

Su suggerimento di Maurizio Caverzan ho letto Lei mi parla ancora e poi via via gli altri romanzi, scoprendo di condividere con questo anziano farmacista di Ro Ferrarese lo stesso sentimento di riconoscenza nei riguardi della vita. Uno sguardo, un tono di voce, del tutto assenti nella narrativa contemporanea intrisa di provincialissime macerazioni.

Raccontando come questo suo primo romanzo sia nato, ho inteso testimoniare con un film tutto il mio affetto e la mia riconoscenza nei riguardi di questo uomo che ostinatamente ha pre- teso che la sua storia d’amore andasse oltre la caducità della vita.

Raccogliendo il suo testimone mi sono trovato a realizzare un film misterioso e “amorevole” in tutte le sue sequenze, in ognuna delle sue mille inquadrature. Alcune delle quali dolorosissime eppure mai disperate.

La morte per Giuseppe Sgarbi è un tratto doloroso della vita. È inclusa nella vita stessa, ne è componente essenziale. Questa certezza lo ha reso universale. Questa convinzione lo ha fatto poeta.