Kevin Spacey: "Io gay, non potevo dirlo in casa. Papà era un neonazista"

L’attore, sotto processo per violenza sessuale su un collega, in aula ha parlato della sua infanzia difficile: "Con miei fratelli sono stato costretto ad ascoltare proclami suprematisti. Come facevo a confessarlo?"

Un padre neonazista suprematista bianco, l’ultima persona al mondo alla quale confessare di essere gay. Una giovinezza "dentro dinamiche familiari molto complicate". Poi il successo. E infine un crollo altrettanto clamoroso in seguito alle accuse di molestie sessuali da parte di un collega all’epoca minorenne, la carriera spazzata via da un giorno all’altro, il disonore. Nell’udienza in cui conferma la propria innocenza, e il giudice per ora gli crede, Kevin Spacey sarebbe plausibile nel monologo di Lester, copiato dal finale di 'American Beauty' e incollato davanti alla corte di New York: "Potrei essere piuttosto incazzato per quello che mi è successo… Non avete la minima idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi: un giorno l’avrete". Invece si commuove. E piange. Perché è vero, "c’è tanta bellezza nel mondo". Ma a lui è franata tutta addosso.

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L’attore americano Kevin Spacey, 63 anni, mentre esce dal tribunale (Ansa)
L’attore americano Kevin Spacey, 63 anni, mentre esce dal tribunale (Ansa)

Così a 63 anni è lì, infeltrito, sconvolto e da troppo tempo praticamente disoccupato, a difendersi dentro una causa in cui gli chiedono 40 milioni di dollari danni. E rivela cose che con il processo c’entrano poco, ma tanto ormai cosa resta da perdere, che i guardoni dell’anima si accomodino. E poi non era stato proprio Anthony Rapp, il suo accusatore, a dargli del bugiardo per non avere mai dichiarato pubblicamente il proprio orientamento sessuale? Un papà nazi: "Significava che io e i miei fratelli eravamo costretti ad ascoltarlo per ore e ore mentre ci inculcava le sue convinzioni". Un papà macho: "Mi urlava dietro alla sola idea che potessi essere gay". Bugiardo no: "Chiamare qualcuno bugiardo è dire che vive nella menzogna, ma non era il mio caso. Ero solo riluttante a parlare della mia vita privata". E giù lacrime.

A quel punto in aula si verifica un curioso ribaltamento: il giudice respinge l’accusa di "angoscia emotiva" che Rapp avrebbe subìto dopo le presunte molestie e Spacey, emotivamente angosciato, fa coming out e incassa la prima vittoria. La moviola torna al 1986, a quella festa privata in un appartamento di Manhattan. Rapp aveva 14 anni, l’ex protagonista di House of Cards 26. Secondo le accuse, l’attore grande avrebbe preso in braccio il piccolo "come uno sposo fa con una sposa" per poi sdraiarlo sul letto e distendersi sopra di lui. Quindi il rifiuto e la fuga. "Non è vero", ribadisce Spacey. E già che c’è dà la colpa al suo avvocato per averlo convinto a scusarsi nel 2017 quando fu messo alla gogna in un articolo su Buzzfeed. Allora disse di non ricordare l’incidente. Chiese addirittura scusa per il "comportamento inappropriato da ubriaco". Ma oggi no: "Ho imparato una lezione: non scusarti mai per qualcosa che non hai commesso. Mi pento della mia intera dichiarazione". E qui parte la spiegazione lacrimosa: essere stato preso in contropiede, avere ricevuto pressioni per starsene buono e non passare per quello che dava la colpa alla vittima. Insomma, un tentativo "per evitare una crisi che avrebbe solo peggiorato le cose". Le cose sono rapidamente peggiorate comunque. Quello che era uno dei cavalli di razza di Hollywood finisce nel cestino della spazzatura dopo la gloria di film come 'Seven', 'I soliti sospetti' (Oscar ’95 come miglior interprete non protagonista), 'L.A. Confidential' e appunto 'American Beauty' (Oscar 2000 come protagonista). Netflix lo licenzia dalla serie 'House of Cards' e il tribunale di Los Angeles lo condanna a un’ammenda di 31 milioni di dollari perché la sesta stagione è stata riscritta, lui si chiude nel silenzio e rifiuta qualsiasi tentativo di resurrezione, tranne quando nel 2019 su proposta dell’italiano Gabriele Tinti legge una poesia dedicata al Pugile a riposo, la statua attribuita a Lisippo ospitata a Palazzo Massimo a Roma.