Molte cose rendono memorabile questa inaugurazione scaligera: ma sopra ogni altra, la direzione di Riccardo Chailly. Verdi amava definire “tinta” l’atmosfera generale delle sue opere, con ciò intendendo l’insieme di parametri musicali (profili melodici, ritmici, colore, timbro, percorsi e concatenazioni armoniche) che forma il nucleo drammaturgico e il disegno dei personaggi: cioè a dire, il suo far teatro.
Quella della Forza del destino, più d’ogni altra sua opera è ottenuta con la giustapposizione di un’oltremodo cospicua varietà di tratti: un “comic relief” shakespeariano, continuo reiterarsi di dettagli microscopici dai nessi anche molto laschi, eppure confluenti in una stupefacente fluidità conversativa, che sovente arretra i personaggi principali per fare emergere piccole figure laterali che nella loro digressione narrativa caratterizzano realisticamente l’ambiente. Tinta fascinosissima, ma enormemente difficile da realizzare: calchi troppo, e cadi nella retorica; calchi troppo poco, ed evapora il divenire narrativo. Bene.
Fin dal primo annuncio del celebre tema che s’è soliti definire del Destino laddove è piuttosto quello di Leonora e della sua passione bruciante, Chailly ne comunica sì, e mirabilmente, il frenetico anelare intriso d’erotismo, però l’immerge in una morbida, compatta austerità che ricorda dappresso la sintassi manzoniana, la cui comunicativa immediata diviene la cifra (“tinta”, appunto), dell’esecuzione tutta: sismogramma perfetto della motilità interiore d’ogni personaggio e situazione. I brulicanti piccoli mondi dell’osteria, dell’accampamento, della folla cenciosa al convento: tutto un mostrare il grande evento storico in prospettiva rovesciata, dal punto di vista d’una piccola umanità emarginata. Quasi un distanziamento brechtiano, tale genialissima idea drammaturgica verdiana: mai ne avevo sentito così sovranamente reso lo stupefacente linguaggio strumentale con cui si esplica, e che qui accompagna cast altrettanto memorabile.
Anna Netrebko plasma l’ennesimo suo capolavoro; fascino timbrico, grandiosa potenza di arcate vocali che di colpo evaporano in pianissimi impalpabili che però saturano di suono la sala, varietà di fraseggio: tutto si fonde in bruciante, personalissima comunicativa. La stupenda voce di Brian Jagde (Don Alvaro) è perfetto amalgama di bronzo e velluto, fascinosa morbidezza sia nello sfolgorio di acuti al fulmicotone, sia nel donare ali possenti a melodie tra le più ampie e robuste mai escogitate da Verdi. Per giunta sono entrambi belli da vedere, il che giova assai a questo romanzo popolare in musica. Ampia e benissimo timbrata pure la voce di Ludovic Tézier (Don Carlo); giusto un po’ slaveggiante ma di bell’impatto quella di Alexander Vinogradov (Padre guardiano).
Si sa quanto Verdi martellasse sulla necessità di avere ottimi artisti per Trabuco, Melitone, Preziosilla: Carlo Bosi è strepitoso nel rendere il piagnucolare motivico del primo, Marco Filippo Romano non gli è da meno nel cesellare il ciabattante monologare del secondo, e Vasilisa Berzhanskaya è bravissima nell’evitare che Preziosilla scada nei gesti e nel canto a Carmen dei poveri. Quanto all’impegnatissimo coro di Alberto Malazzi, dire che è strepitoso neppure dà l’idea; come il settore maschile canta (sovranamente accompagnato, va detto) l’incredibile capolavoro della Ronda, e come quello femminile effonde il lancinante “Povere madri” dei coscritti: non c’è gara per nessun altro.
Lo spettacolo di Leo Muscato si svolge tutto su di un enorme girevole, i molteplici spicchi del quale sono centrati sul tema della guerra, reiterato in quattro epoche diverse dal Settecento ai giorni nostri (subito in mente il “Guerra è sempre” che Primo Levi mette in bocca al suo Morda Nahum): immagini bellissime e suggestive si susseguono in una sorta di continuo piano sequenza, rendendo alla perfezione quel carattere – unico, nel gran teatro verdiano – di racconto popolare a dispense illustrate che forma l’essenza di questo capolavoro: impianto quindi in totale sintonia con la portentosa direzione di Chailly.
Spettacolo, in sintesi, da libro d’oro della Scala: e, quantunque non siano state granché, dissento con forza dalle contestazioni rivolte alla regia.