
Roma, 17 novembre 2023 – Dice che girare un film è molto impegnativo e quindi, visto che ha 87 anni, The Old Oak (da ieri nelle nostre sale) potrebbe essere la sua ultima fatica. Ma non bisogna credergli. Perché Ken Loach di energie ne ha ancora da vendere e lo sta dimostrando in questi giorni che passa senza sosta da un palazzo occupato ai cinema di Roma dove si proietta il suo film e si ferma a lungo a rispondere alle domande degli spettatori che, ovunque, lo accolgono con straordinario calore. Sempre gentile, disponibile, parla di chi ha perso il lavoro e di chi fugge dalle guerre, di persone in difficoltà, come il proprietario del pub “Old Oak“, unico luogo di socialità rimasto nella desolata cittadina, nel nord est dell’Inghilterra, dove nel 2016 l’arrivo di rifugiati siriani scatena l’ostilità di molti. Ma, ci dice Ken Loach con il suo commovente film, la solidarietà può vincere e convivere in pace si può.
Loach, storie vere quelle che racconta?
"I personaggi sono inventati ma la situazione alla base è reale. Il nord est dell’Inghilterra è una regione molto particolare, che viveva grazie alle vecchie industrie, acciaio, cantieristica e miniere di carbone. Ma da quando le miniere sono state chiuse, in questi villaggi, un tempo dotati di scuole, biblioteche, piscine, non c’è più lavoro per nessuno. E nessun governo, né quello di destra dei Tory né quello laburista, ha fatto nulla per loro. Le persone quindi sono arrabbiate e amareggiate".
E di conseguenza non proprio favorevoli ad accogliere.
"Questa è stata l’area dell’Inghilterra dove, in percentuale, è arrivato il numero più alto di rifugiati siriani. E la gente del luogo si chiedeva, perché vengono qui da noi? Noi non abbiamo nulla. E questa domanda si è trasformata prima in “non vi vogliamo qui“ e poi in “non ci piacete“".
Il film parla di questo ma anche di solidarietà.
"In questi luoghi resiste la vecchia tradizione di solidarietà dei minatori e volevamo proprio mostrare lo scontro tra questi due atteggiamenti, tra chi respinge e chi accoglie. E anche la realtà dei siriani, perché anche loro non hanno nulla, e in più hanno vissuto il trauma di una guerra, con la casa distrutta, i parenti morti, gli uomini torturati. E la domanda che volevamo porre è, queste due comunità possono trovare un modo per convivere? Il film è ambientato nel 2016 e noi (io e soprattutto Paul Laverty, il mio amico e sceneggiatore da tanti anni) le ricerche le abbiamo fatte nel 2020. Quando i siriani sono arrivati nel 2016, hanno incontrato le ostilità che si vedono nel film ma nel 2020 si erano già stabiliti tra tutti dei buoni rapporti. E per questo ci siamo sentiti giustificati nell’affermare che sì, è possibile. Le persone riescono a convivere".
Il suo cinema è quasi una forma di militanza. Mai avuto momenti di stanchezza?
"No, è un grande privilegio fare cinema. È uno strumento meraviglioso, ha tutto, storie, immagini, musiche. Un’arte popolare. Ho cominciato negli anni Sessanta, in tv, ed è stata una grande fortuna perché la televisione era agli inizi e coloro che la gestivano non si erano resi conto del suo grande potere, così nessuno ci controllava. Eravamo un piccolo gruppo di ragazzini tra i venti e i trenta anni, e ogni settimana realizzavamo storie sul presente, in onda in prima serata, dopo il telegiornale. Abbiamo fatto cose anche incasinate ma riuscendo a infilarci qualche cosa di forte. Una volta ho inserito dentro a uno di questi lavori perfino una citazione di Trotzkij, dal suo testamento. Erano furiosi".
Cosa diceva?
"Non ricordo le parole esatte, ma diceva qualcosa tipo: la vita è bella, ripuliamola dall’oppressione e dallo sfruttamento, in maniera che tutti possano vivere in pace".
Il cinema può aiutare a cambiare la realtà?
"È una piccola voce in un mondo molto rumoroso ma, se non altro, possiamo incoraggiare coloro che hanno il potere di cambiare il mondo".
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