Mercoledì 24 Aprile 2024

Ildefonso Falcones Le schiave di ieri e il mondo di oggi

Il nuovo romanzo dello scrittore spagnolo. Dalla Cuba dell’Ottocento alla Madrid dei giorni nostri

Migration

Ildefonso

Falcones

Spiaggia di Jibacoa,

Cuba, 1856

Sulla sabbia si accalcava una moltitudine composta da centinaia di infelici. I singhiozzi, i lamenti e i gemiti si infrangevano contro gli ordini dei capataz e gli schiocchi di frusta. C’erano settecento ragazze e bambine di origini africane, dalla pelle nera o color cioccolato; la maggior parte nude, altre coperte di stracci, tutte denutrite, indebolite, molte di loro malate. Piangevano sin da quando era iniziata la loro sventura, in Africa, dopo che erano state catturate in una delle tante guerre tribali. Avevano pianto durante il tragitto verso la costa del Benin, unite in lunghe file da catene legate al collo e ai polsi. Poi c’era stato un periodo di attesa incerta, nel quale erano rimaste chiuse in grandi capanne vicino al mare, e dopo un certo tempo, raggruppate in un contingente di giovani donne tra le quali si erano intrufolate alcune decine di bambini. Avevano dovuto affrontare la terribile traversata, ammucchiate nella stiva di un vascello veloce, un clipper che in meno di tre mesi le aveva fatte sbarcare sull’isola caraibica.

Più di cento prigioniere erano morte lungo il tragitto, e le sopravvissute avevano dovuto convivere con la loro agonia, sdraiate sulle proprie feci, senza poterle aiutare in alcun modo e senza parole per confortarle. Avevano esaurito le lacrime dormendo accanto a quei corpi freddi, mentre aspettavano che il medico di bordo o un marinaio si accorgesse della loro morte e raccogliesse i cadaveri per gettarli in pasto agli squali.

Kaweka, di undici anni, cercava di nascondere il corpo di Daye, la sorella minore, ogni volta che si apriva il boccaporto e un fascio di luce penetrava nell’ambiente putrido della stiva, annunciando l’arrivo di un uomo dell’equipaggio. Aveva giurato di prendersene cura. Le aveva dato la sua parola quando erano state catturate, consolandola giorno dopo giorno, trattenendo le lacrime, controllando la tremenda angoscia ogni volta che la sorellina invocava la madre e sprofondava nel dolore. Durante la traversata la piccola aveva perso conoscenza tra le sue braccia; lei le parlava, la cullava, le cantava all’orecchio con dolcezza, dimenticando le catene che le imprigionavano. La incoraggiava con speranze che sapeva vane, ma la bambina si era spenta nel giro di pochi giorni e aveva smesso di rispondere, di singhiozzare e di respirare... O forse no? Magari non era morta, se ne stava solo immobile col suo solito respiro lieve. Kaweka se lo chiedeva. E se fosse stata soltanto addormentata? Gli dèi erano capricciosi, dicevano sempre sua madre e suo nonno. Forse Daye poteva risvegliarsi all’improvviso. A volte succedeva, anche questo lo aveva sentito dire dalla madre o dal nonno, ma nessuno dei due era lì per prendersene cura, come facevano con gli altri bambini del villaggio. Quindi l’aveva coperta con il proprio corpo cercando di nasconderla, finché alcune ragazze più grandi, oltre la fila dove erano incatenate lei e la sorellina, dopo due giorni di vana speranza nel miracolo l’avevano tradita.

"È morta!" urlarono i marinai che tentavano di strappare il cadaverino dalle braccia di Kaweka.

La bambina non capiva la loro lingua, ma le era chiaro cosa stavano dicendo, e malgrado la debolezza lottava per impedire che la portassero via. Cosa ne sarebbe stato dello spirito della sorellina, se fosse finita divorata dai mostri marini di cui parlavano tutti?

Poi, ormai privata della presenza della piccola, del suo corpo profanato, con la nave che solcava le onde in modo feroce, crudele, violento, quasi proclamasse la sventura di quelle centinaia di giovani donne, quando ormai Kaweka non doveva più fingere di nutrire speranze né di mostrarsi forte davanti alla sorellina, si lasciò andare a un pianto disperato che la accompagnò nel resto della traversata.

"State ferme e in silenzio! Silenzio!"

Le bozales, le schiave appena arrivate dall’Africa, non capivano gli ordini sbraitati al loro indirizzo non appena mettevano piede sulla battigia, dopo il trasbordo dal clipper alle scialuppe. Ma, al pari di Kaweka quando i marinai erano scesi nella stiva per prendere il cadavere della sorellina, intuivano cosa volessero i trafficanti, una ventina di uomini sudati, barbuti, rudi, armati di machete e pistole, e si raggruppavano al centro del cerchio che quelli delimitavano a colpi di frusta, aizzando i cani trattenuti a forza. Molte di quelle giovani donne pensarono di essersi finalmente lasciate indietro il fetore e gli effluvi malsani della stiva del clipper, e di poter respirare l’aria salubre e fresca di una placida notte stellata sul finire dell’inverno, la luna a illuminare quell’ignominia in maniera tanto splendente quanto impietosa. Ma la nuova catena che misero loro al collo stroncò sul nascere quell’accenno di sollievo.

"Alzati!" ordinò un negriero a una bambina dell’età di Daye, che era crollata esausta sulla sabbia prima di essere nuovamente incatenata.

La piccola non si mosse, e l’uomo la pungolò con la punta dello stivale. Lei rimase rannicchiata, gli occhi sgranati che spiccavano enormi sul viso smagrito, in una muta supplica. L’uomo l’afferrò per i capelli, la sollevò come una bambola di pezza, quindi la legò. Stava per lasciarla ricadere sulla sabbia, quando Kaweka la prese tra le braccia.

Non era la sua sorellina.

Longanesi & C. F 2022 – Milano

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Mauri Spagnol

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