Mercoledì 24 Aprile 2024

Il viaggio di Emanuele Il ragazzo down che studia teologia

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di Geraldina Fiechter

"Avevo sei figli, dai 5 ai 20 anni. Quando un amico prete mi ha chiesto se volevo adottare un bambino down abbandonato a Milano ho detto: sei matto. Ma ormai il tarlo era entrato, e nel giro di pochi giorni siamo andati a prenderlo". Dunque alla fine i matti sono stati loro, come disse ai genitori la figlia più grande, Camilla, che quando tornò a Firenze da un lungo viaggio trovò Emanuele. Aveva 3 mesi, un’accentuata sindrome di down e - si scoprirà - una grave forma di autismo. Oggi ha trent’anni e non parla, ma scrive pensieri che nessuno poteva immaginare e si è iscritto a teologia. "E’ un mistico", ha detto di lui una professoressa. "La verità è che ci ha fregati tutti – afferma Donatella Bing, la mamma di Ema –. Se ci fossimo fermati ai percorsi prescritti, mai avremmo scoperto cosa c’era dietro il muro". E di muri, si intuisce, ne hanno incontrati parecchi.

"I primi anni sono stati faticosissimi – racconta mamma Donatella fra molti sorrisi –. La casa era un campo di battaglia, Ema rompeva tutto, era pieno di rabbia, non comunicava, sputava addosso alla gente che non gli piaceva. E quando me lo portavo al supermercato sentivo spesso la fatidica frase: questi bambini dovrebbero tenerli a casa. La svolta? Quando abbiamo trovato il primario di psicologia del Bambin Gesù a Roma, che ci ha dato la chiave per interpretarlo. Ha voluto seguire tutta la famiglia, andavamo a Roma tutti e 9, con un pulmino. E’ stato lui a dirci che un giorno avremmo dovuto raccontargli la sua storia, e quando, ormai grande, ci ha chiesto per scritto di dirgliela, mio marito gli ha detto poche parole: sapevamo che c’eri e siamo venuti a prenderti. Lui ha battuto sui tasti: avete fatto bene".

E come avete scoperto che poteva scrivere?

"Dopo le elementari ha cominciato la musico-terapia con la maestra Giordania, lei per prima ha capito che sapeva leggere perché suonava il tamburo su cui era scritta la parola richiesta. E allora ci ha parlato del metodo W.O.C.E., basato sulla comunicazione aumentativa con l’uso del computer. Ci abbiamo messo parecchio tempo prima di convincerci, purtroppo anche noi genitori siamo vittime di pregiudizi. Quando poi l’insegnante mi ha fatto vedere che aveva individuato l’errore in una frase, cioè un più senza accento, allora ho detto ok, incredibile ma vero. E ci è cambiata la vita. E’ cambiata a lui, soprattutto, che ha potuto cominciare a scrivere i suoi pensieri, i suoi desideri".

Fino al desiderio più grande: studiare teologia.

"Finito l’istituto agrario gli abbiamo trovato un lavoro in un vivaio. Ma gli facevano riempire e vuotare i vasi di terra, e un giorno ci ha scritto: mio lavoro inutile non ci vado più. Voglio andare all’università, ci fece sapere. Ma figurati, la scuola è finita, gli ho detto. E lui ha scritto: le mie sorelle l’hanno fatta, perché io no? Ha fatto la prova di ingresso e l’hanno preso".

Oggi Ema lavora con altri 8 ragazzi disabili in un allevamento di alpaca, animali da lana fra i più docili che esistano sul pianeta. Un lavoro vero, con uno scopo tangibile, altro che svuotare e riempire vasetti.

"E a 70 anni mi sono messa anch’io a lavorare con fatture, buste paga, commercialista, non è mica stato facile. Cosa ci aiuterebbe? Avere la certezza che gli operatori della struttura vengano pagati in modo adeguato: viviamo nella precarietà, andando a caccia di bandi. La stabilità ci aiuterebbe molto. Altro non chiediamo".

Allora osiamo: ogni comunità avrebbe bisogno di un Ema. Ovvero di una specie di alieno che esce da qualunque schema, che butta all’aria le dinamiche di una famiglia spingendola verso sentieri inesplorati, che vuole verità essenziali e affetto senza trucchi, che infine diventa il fulcro di una vita nuova da cui nessuno tornerebbe più indietro. E ci sarà pure un motivo.

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