Lucio Battisti e il mio canto libero che emozionò l’Italia

Cinquant’anni fa usciva l’album scritto insieme a Mogol: per mesi dominò le classifiche e segnò una stagione, non solo musicale

Lucio Battisti (Alive)

Lucio Battisti (Alive)

Mezzo secolo fa, nel 1972, Lucio Battisti doveva ancora compiere trent’anni. Era all’apice della creatività: tanto che nel giro di pochi mesi regalò agli italiani due emozioni (appunto!) formidabili. A primavera inchiodò milioni di telespettatori alla tv, proponendo il mitico show dal vivo con Mina, otto minuti e cinquantotto secondi rimasti nella memoria collettiva. E in autunno sfornò quello che probabilmente è il capolavoro di una carriera in note, pensieri e parole: l’album Il mio canto libero.

Il suo canto libero, già. Suo e di un Mogol ispiratissimo, esaltato da melodie che spinsero l’autore dei testi verso vette immacolate. Da “Come può uno scoglio arginare il mare” a “Mi sono svegliato solo poi ho incontrato te l’esistenza un volo diventò per me”, fino a “E l’immensità si apre intorno a noi al di là del limite degli occhi tuoi”, insomma, non c’è pezzo in cui Mogol non riesca a non dare carne al sangue delle armonie battistiane. La fusione è totale, tanto che un giorno un certo David Bowie ebbe a dire: "Io ho a lungo creduto che Mogolbattisti fosse una persona sola…"

Il trionfo. Disco italianissimo, registrato interamente nella Milano degli anni di piombo, suonato da strumentisti amici di Lucio (Alberto Radius e la Formula Tre, Mario Lavezzi), orchestrato dal maestro Gian Piero Reverberi, un geniaccio artigiano, l’ellepì spopolò. Per mesi e mesi dominò le classifiche. Quelle otto canzoni, tutte magiche, ascoltate una dietro l’altra, somigliavano dannatamente nonché meravigliosamente ad una piccola grande sinfonia pop.

L’equivoco. E Lucio ne era consapevole. Era conscio di aver realizzato qualcosa di epico. Ha raccontato Bruno Lauzi, cui Battisti donò il brano dell’album L’Aquila per un singolo di successo: "Erano tempi cupi e qualcuno aveva voluto dare un significato politico alla copertina del 33 giri. In Galleria a Milano un pomeriggio io e Lucio fummo riconosciuti da estremisti di sinistra. Gli dissero: tu sei un fascista e quando saremo al potere te la faremo pagare. Lui rispose: a parte che al potere non ci andrete mai, se anche fosse io sono così bravo che il vostro regime mi garantirebbe un passaporto diplomatico…"”

La falsa leggenda del Battisti “nero”, peraltro astutamente cavalcata dai giovani missini dell’epoca (l’ex ministro Gasparri): "Lo consideravamo uno dei nostri, a prescindere da come la pensasse lui, almeno non inneggiava alla rivoluzione del proletariato come tanti cantautori di allora…"), ecco, quella fake news fu alimentata proprio dalla copertina de Il mio canto libero. Braccia alzate su sfondo bianco, una foto di Cesare Montalbetti.

Riferimenti al Duce: zero virgola zero. Ma in quella Italia lì, bastava poco per essere etichettati e screditati, perché, come qualche scemo ha avuto il coraggio di affermare, “il sospetto è l’anticamera della verità”.

L’artista. Ci sarebbe voluto, per ben altre faccende!, Giovanni Falcone, il giudice eroe anti mafia, per chiarire che semmai il sospetto è l’anticamera del khomeinismo. E di sicuro Lucio Battisti non ha mai preso sul serio la follia di taluni suoi contemporanei. A lui interessava la musica. Prima di trasformarsi in brillante telecronista di calcio per Mediaset, Bruno Longhi faceva il bassista. È lui a suonare in Gente perbene gente per male, altro gioiello del disco. Una volta mi ha detto: "Lucio non ti offriva mai un caffè, ma se gli chiedevi un accordo sulla chitarra per farci una canzone era generosissimo". Perché era un artista.