Angelo Fortunato Formiggini si uccise a Modena il 29 novembre 1938: aveva 60 anni

di Lorenzo Guadagnucci "Bumf!": così, come in un fumetto, Angelo Fortunato Formiggini descrisse il suo stesso tonfo, il suo suicidio, il salto nel vuoto dai 49 metri della torre della Ghirlandina, cuore e simbolo della sua Modena. Fondatore e proprietario di una casa editrice "piccina picciò" – come la definiva lui –, Formiggini (accento sulla prima i), volò dalla cima della torre fino al selciato di piazza Tassoni il 29 novembre 1938: fu la sua protesta estrema contro le leggi antiebraiche; il suicidio come suo "preciso dovere": "Io debbo dimostrare – scrisse alla moglie Emilia – l’assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti". Non fu un gesto impulsivo, il suo, anzi meditato per mesi, e concepito con meticolosa attenzione, documentato in lettere e scritti. Formiggini voleva scuotere l’Italia del suo tempo, mostrare ai concittadini l’aberrazione del razzismo tradotto in legge. Era un editore in vista, di ottima famiglia, un ebreo assimilato ben inserito nel mondo culturale del regime (col quale, peraltro, ebbe un importante contrasto), e soprattutto si sentiva un patriota: voleva, col suo gesto, sostituirsi a Barabba e farsi agnello sacrificale; pensava di poter impressionare così tanto da turbare le coscienze. In verità il suo volo – pare al grido “Italia, Italia, Italia“ – pur così plateale, non fu notato quasi da nessuno; le autorità spostarono subito il corpo e nelle carte ufficiali si parlò nell’immediato del suicidio di uno sconosciuto. Il Resto del Carlino del giorno dopo – come scrive Marco Ventura nel suo documentato libro Il fuoriuscito (editore Piemme) – riferisce di un tale caduto dalle scale, di una rissa fra ubriachi, di una bisca clandestina scoperta a Mirandola: "Niente su Formiggini". Un gesto eclatante, preparato con cura affinché divenisse un atto d’accusa, inghiottito dal nulla, dal silenzio; un silenzio, peraltro, durato decenni, perché Formiggini e la sua protesta furono ignorati sia nell’immediatezza dei fatti, sia nel dopoguerra. Un destino crudele, ma non troppo sorprendente, per un uomo che lungo i 60 anni della sua esistenza fu un irregolare, un editore più che originale, un talentuoso sognatore, secondo un contemporaneo "l’uomo meno noioso del suo tempo"; uno che definì in dialetto "al tvajol ed Furmajin", il tovagliolo del formaggino (cioè del Formiggini), il punto di caduta del suo corpo, con un sense of humor degno di un editore che dedicò una delle sue famose collane ai “Classici del ridere“. Formiggini non fu mai davvero capito: né dagli italiani del suo tempo, né dalla comunità ebraica, che gli rifiutò un posto al cimitero in quanto suicida e anche una targa in sinagoga in ricordo del suo “atto d’accusa“, né dalla Repubblica nata sulle ceneri del fascismo, che diffidò della sua storia tutta interna al regime. Era un editore, un umorista, un massone, un patriota, un buono amico di maggiorenti del regime – da Cesare Maria De Vecchi a Giuseppe Bottai – e poi “ebreo, anche“. Nel ’23 si scontrò col neoministro Giovanni Gentile, e fu da lui sopraffatto, quando concepì l’idea di un’ecumenica Enciclopedia italica che il filosofo gli scippò, dando vita, con l’impreditore Treccani, alla famosa Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti. Formiggini reagì con un libretto beffardo – La ficozza filosofica del fascismo e la marcia sulla Leonardo – in cui scherniva il filosofo e il regime (il primo “ficozza“, cioè bernoccolo, escrescenza del secondo), un testo che andrebbe riletto come un raro esempio di esercizio di libertà intellettuale in tempi illiberali.  La sua sorte, e quella di tanti ebrei come lui, è stata la tragedia del fascismo e dell’Italia del ’900: un tradimento del senso d’appartenenza alla patria, alla nazione, alla comunità umana; una ferita mai del tutto risarcita. Quando concepì il suo "Bumf!", poco tempo prima di togliersi la vita, Formiggini si fece stampare nuova carta da lettere, mettendo nell’intestazione “Liquidazione“; e prese a firmarsi con un enigmatico “Fuoruscito“. Oggi sappiamo che era un fuoruscito dalla vita e dal fascismo, ma anche dal conformismo e da un certo rassegnato (e servile) modo d’essere italiani.

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di Lorenzo Guadagnucci
"Bumf!": così, come in un fumetto, Angelo Fortunato Formiggini descrisse il suo stesso tonfo, il suo suicidio, il salto nel vuoto dai 49 metri della torre della Ghirlandina, cuore e simbolo della sua Modena. Fondatore e proprietario di una casa editrice "piccina picciò" – come la definiva lui –, Formiggini (accento sulla prima i), volò dalla cima della torre fino al selciato di piazza Tassoni il 29 novembre 1938: fu la sua protesta estrema contro le leggi antiebraiche; il suicidio come suo "preciso dovere": "Io debbo dimostrare – scrisse alla moglie Emilia – l’assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti". Non fu un gesto impulsivo, il suo, anzi meditato per mesi, e concepito con meticolosa attenzione, documentato in lettere e scritti. Formiggini voleva scuotere l’Italia del suo tempo, mostrare ai concittadini l’aberrazione del razzismo tradotto in legge. Era un editore in vista, di ottima famiglia, un ebreo assimilato ben inserito nel mondo culturale del regime (col quale, peraltro, ebbe un importante contrasto), e soprattutto si sentiva un patriota: voleva, col suo gesto, sostituirsi a Barabba e farsi agnello sacrificale; pensava di poter impressionare così tanto da turbare le coscienze.
In verità il suo volo – pare al grido “Italia, Italia, Italia“ – pur così plateale, non fu notato quasi da nessuno; le autorità spostarono subito il corpo e nelle carte ufficiali si parlò nell’immediato del suicidio di uno sconosciuto. Il Resto del Carlino del giorno dopo – come scrive Marco Ventura nel suo documentato libro Il fuoriuscito (editore Piemme) – riferisce di un tale caduto dalle scale, di una rissa fra ubriachi, di una bisca clandestina scoperta a Mirandola: "Niente su Formiggini". Un gesto eclatante, preparato con cura affinché divenisse un atto d’accusa, inghiottito dal nulla, dal silenzio; un silenzio, peraltro, durato decenni, perché Formiggini e la sua protesta furono ignorati sia nell’immediatezza dei fatti, sia nel dopoguerra.
Un destino crudele, ma non troppo sorprendente, per un uomo che lungo i 60 anni della sua esistenza fu un irregolare, un editore più che originale, un talentuoso sognatore, secondo un contemporaneo "l’uomo meno noioso del suo tempo"; uno che definì in dialetto "al tvajol ed Furmajin", il tovagliolo del formaggino (cioè del Formiggini), il punto di caduta del suo corpo, con un sense of humor degno di un editore che dedicò una delle sue famose collane ai “Classici del ridere“.
Formiggini non fu mai davvero capito: né dagli italiani del suo tempo, né dalla comunità ebraica, che gli rifiutò un posto al cimitero in quanto suicida e anche una targa in sinagoga in ricordo del suo “atto d’accusa“, né dalla Repubblica nata sulle ceneri del fascismo, che diffidò della sua storia tutta interna al regime. Era un editore, un umorista, un massone, un patriota, un buono amico di maggiorenti del regime – da Cesare Maria De Vecchi a Giuseppe Bottai – e poi “ebreo, anche“. Nel ’23 si scontrò col neoministro Giovanni Gentile, e fu da lui sopraffatto, quando concepì l’idea di un’ecumenica Enciclopedia italica che il filosofo gli scippò, dando vita, con l’impreditore Treccani, alla famosa Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti. Formiggini reagì con un libretto beffardo – La ficozza filosofica del fascismo e la marcia sulla Leonardo – in cui scherniva il filosofo e il regime (il primo “ficozza“, cioè bernoccolo, escrescenza del secondo), un testo che andrebbe riletto come un raro esempio di esercizio di libertà intellettuale in tempi illiberali. 
La sua sorte, e quella di tanti ebrei come lui, è stata la tragedia del fascismo e dell’Italia del ’900: un tradimento del senso d’appartenenza alla patria, alla nazione, alla comunità umana; una ferita mai del tutto risarcita. Quando concepì il suo "Bumf!", poco tempo prima di togliersi la vita, Formiggini si fece stampare nuova carta da lettere, mettendo nell’intestazione “Liquidazione“; e prese a firmarsi con un enigmatico “Fuoruscito“. Oggi sappiamo che era un fuoruscito dalla vita e dal fascismo, ma anche dal conformismo e da un certo rassegnato (e servile) modo d’essere italiani.

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