Giovedì 25 Aprile 2024

Il segreto di Spielberg: "Eccitarsi per un’idea"

Il regista a Berlino per ricevere l’Orso d’oro alla carriera. "Solo la nascita di un figlio è più emozionante di concepire un buon film"

Steven Spielberg, 76 anni

Steven Spielberg, 76 anni

Avere successo capita a molti registi ma averlo per trentasei volte di fila significa compiere una magia. Tanti sono i lungometraggi con cui Steven Spielberg ha ammaliato generazioni di spettatori: dai tempi delle sale dense di fumo agli odierni streaming. Per più di mezzo secolo il regista americano ha raccontato i miti, le speranze e le fantasie di un’intera nazione. Ne ha colto l’anima, come nessun altro dai tempi di Ford, poi, alla fine, con The Fabelmans (sette nomination) ha splendidamente raccontato il suo sogno, posto al vaglio della vita vera. L’Orso d’Oro berlinese arriva dopo una messe di premi – a cominciare dagli Oscar – e non sarà l’ultimo.

Mister Spielberg, in cinquant’anni come è cambiato il cinema?

"Non è cambiato in niente. Gli script, la preparazione, l’idea che hai in testa e che deve essere tradotta in immagini, il processo è il medesimo da sempre. Anche se cambia la tecnica a me lo schermo detta sempre la stessa emozione che cerco di condividere con lo spettatore. Quando trovo un libro oppure ho un’idea che penso possa tradursi in un buon film, provo un’eccitazione seconda solo alla nascita di un figlio".

Perché solo oggi con The Fabelmans si è deciso a raccontare la sua vita?

"Sono discreto per natura, ma nei miei film attraverso personaggi di fantasia e universi immaginari ho messo in scena molte volte esperienze personali. Nel 2017 è morta mia madre e nel 2020, a 103 anni, mio padre: sono diventato orfano e raccontare la famiglia è stato più facile. Mia madre mi chiedeva sempre di fare un film raccontando la nostra storia familiare – “C’è fin troppo materiale!“, diceva – ma solo ora ne ho avuto il coraggio".

L’idea di invecchiare lo ha aiutato a decidersi?

"Forse, ma soprattutto è stato il lungo periodo di distacco dalla vita attiva dovuto al Covid che mi ha spinto a riflettere. Per più di un anno non sono uscito di casa e ho avuto il tempo di pensare, di pormi delle domande, quelle che avevo evitato in mezzo secolo di lavoro indefesso. La pandemia mi ha concesso questo spazio".

Ma scrivere su se stessi non è stato più difficile?

"Non più difficile ma sicuramente più rischioso. Non volevo tradire la memoria dei miei genitori e nemmeno travisare i ricordi affidatimi dalle mie tre sorelle. Certo sul set dovevo costantemente prendere la distanza dal mio vissuto per poterlo raccontare con la dose giusta d’emozione e di onestà. Mi hanno molto aiutato i membri della troupe e i tecnici".

Quale tra i suoi film ricorda più volentieri?

"Ovvio, non posso rispondere. Sono tuti importanti, sono parti della mia vita, come fossero altrettanti figli. Quello più difficile emotivamente è stato Schindler’s list. Quando invitammo sul set alcuni dei sopravvissuti della lista di Oskar Schindler, tutti mi chiedevano di raccontare le loro storie ma non pensavano che finissero nel film, volevano solo rendermi partecipe di ciò che era successo. Da qui è nata una fondazione per raccogliere le testimonianze. E questa è l’impresa di cui sono più orgoglioso. Oggi la Shoah Foundation raccoglie testimonianze da tutto il mondo: da Sarajevo alla Cambogia, al Ruanda".

Come sceglie il soggetto e il genere dei film?

"Credo di aver affrontato tutti i soggetti. Non faccio scelte a priori, mi piacciono tutti i generi. Recentemente ho affrontato il musical con West Side Story. Mi piaceva l’idea e l’ho fatto senza pensarci troppo. Mi manca solo di fare western ma non è detto, aspetto l’idea buona".

Come viene l’idea buona?

"A chi mi chiede come cominciare a fare cinema dico sempre: ricordatevi che dovete cominciare con una buon soggetto, scriverlo, riscriverlo prima di filmarlo perché lo spettatore aspetta sempre che tu gli racconti una storia. La vicenda del mio primo film, Duel, me la fornì la mia segretaria che mi diede un libro di racconti di Richard Matheson".

A chi ha “inventato” E.T. , Indiana Jones e il soldato Ryan c’è da credere.

 

 

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