Il Reich e gli animali: l’ossessione della razza

Il bestiario nazista fra ideologia e selezione della specie (anche umana). Il culto per lupi e predatori, i sospetti verso i "perfidi" gatti

Adolf Hitler con la sua Blondie, un pastore tedesco

Adolf Hitler con la sua Blondie, un pastore tedesco

Roma, 30 marzo 2021 - Adolf Hitler ebbe molti rifugi e luoghi di ritiro e li chiamò tutti “tana del lupo”, in omaggio all’animale simbolo del nazismo. Uno dei più alti gerarchi del nazismo, Hermann Göring, tenne con sé come mici di casa, in successione, almeno sette cuccioli di leone (finché non diventavano troppo grandi); lo stesso Göring, appassionato di caccia, di trofei e di titoli tonitruanti si fece nominare Guardiacaccia del Reich. Quanto ai gatti, è Will Vesper, giornalista nazionalista e adulatore del Führer a definirli perfidi, falsi e asociali, insomma "gli ebrei tra gli animali".

Non è facile orientarsi nel contraddittorio rapporto fra il nazismo e gli animali, ma è stata una relazione centrale, sia per gli aspetti metaforici sia per questioni più pratiche. Per un lupo preso come simbolo di creatura predatrice, padrona di sé e del proprio ambiente, ecco un cane – il pastore tedesco – esempio di fedeltà e obbedienza, valori supremi nell’ottica del capo della “razza eletta“. Tutto ciò non impediva al regime di consentire la caccia al lupo, per non irritare allevatori e appassionati dell’arte venatorie. “Arte“ tanto adorata da Göring, quanto disprezzata da Hitler, secondo il quale "la cosa più decorosa della caccia è la selvaggina".

E non si possono dimenticare, per gli aspetti pratici, le campagne di raccolta degli scarti di cucina per nutrire i maiali e aumentare i consumi di carne pro capite, o gli allevamenti di bachi da seta allestiti in migliaia di scuole per produrre il prezioso filato e intanto educare le giovani generazioni alla cura della purezza della razza (dei bachi).

Dunque, i nazisti erano o non erano amici degli animali? Li preferivano forse agli umani? È noto che nei dodici anni del regime furono introdotte leggi piuttosto avanzate di tutela degli animali, in parte rimaste nella legislazione tedesca post bellica; e non manca quasi mai, nei confronti fra animalisti e anti animalisti, il richiamo al vegetarismo di Adolf Hitler, come dire: amico degli animali, ma spietato verso le persone.

Il tema è così controverso e scottante che gli storici del nazismo lo hanno per lo più evitato, forse per il rischio di mostrare un lato positivo – le leggi di tutela, il vegetarismo del Führer (ma le associazioni vegetariane sotto il nazismo furono perseguitate) – di un regime che trasformò l’Europa in un campo di battaglia disseminato di campi di sterminio.

Jan Mohnhaupt, giornalista di formazione storica, ha infranto il tabù e dedicato un libro alla questione: Bestiario nazista, editore Bollati Boringhieri. Per Mohnhaupt la questione si può sintetizzare così: il nazismo è un’ideologia che considera il valore di una vita sulla base della sua utilità, senza fare una distinzione netta fra umanità e altri animali, perciò alcune vite animali vengono valutate meritevoli e quindi protette mentre alcune vite umane vengono definite “parassitarie” e annientate. E c’è dell’altro: l’ideologia razzista del nazismo riprende le pratiche di selezione razziale dell’allevamento di animali e le applica alle sue teorie sulla supremazia degli ariani. No, quindi, ai mescolamenti fra razze diverse e sì all’eliminazione degli individui deboli o difettati: la società umana come un grande allevamento gestito dal popolo “dominatore” e dai suoi leader. Ecco spiegato come il nazismo conciliava le leggi di protezione della vita selvatica – vita pura, forte, dominatrice – con l’eugenetica e Aktion T4, il piano di eliminazione fisica dei più “deboli”. Ecco perché a Buchenwald e altri Lager furono allestiti piccoli zoo con orsi e altri animali, trattati assai meglio dei prigionieri umani. A Treblinka, per dire, tutti conoscevano Barry, un incrocio di sanbernardo, che il conduttore, il vice direttore del campo Kurt Franz, aizzava contro i prigionieri con un ordine eloquente: "Uomo, prendi quel cane!"

C’è un aforisma di Adlous Huxley, l’autore de Il mondo nuovo, che può fare da orientamento nel complesso rapporto fra il nazismo e gli animali: "Se lei chiama una persona cimice, ciò significa che è sua intenzione trattarla come tale". E infatti gli ebrei, nella propaganda nazista, furono deumanizzati al rango di topi, in modo che fosse più agevole – sul piano morale – trattarli come furono trattati, fino allo sterminio. Il punto, insomma, non era la divisione fra umani e animali, ma il potere di tracciare una linea di demarcazione fra le vite degne di protezione e gli “indegni di vivere“.

 

 

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