Giovedì 25 Aprile 2024

Il Nobel al Neanderthal che è dentro di noi

Il Premio per la medicina allo svedese Svante Pääbo: ha sequenziato il genoma dei nostri “cugini“. Il padre naturale vinse 40 anni fa

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di Lorenzo Guadagnucci

"Erano gentili e intelligenti. Avevano il pollice opponibile e una leggera peluria sulla schiena": Claire Cameron presenta (anche) così i nostri cugini Neanderthal nel prologo al suo romanzo uscito nel 2017, L’ultima dei Neanderthal (pubblicato da Sem), una storia struggente che attraversa i millenni con due protagoniste sulle scena. Una è la giovane Girl, vissuta quarantamila anni fa, impegnata nella spasmodica ricerca di un compagno col quale concepire un figlio, in modo che la sua specie, ormai decimata, possa continuare ad abitare il pianeta Terra; l’altra è Rosamund, un’archeologa – lei sì incinta – impegnata in un importante scavo, riguardante proprio i Neanderthal, da portare a compimento prima del parto. Il romanzo di Cameron non sarebbe stato nemmeno pensabile senza quel filone di studi che ha portato il biologo svedese Svante Pääbo fino al Nobel per la medicina, assegnato "per le sue scoperte sui genomi di ominini estinti e sull’evoluzione umana".

Pääbo è il ricercatore che con intelligenza e ostinazione ha sequenziato prima il genoma dei Neanderthalian e poi quello dei Denisoviani, le due popolazioni che hanno convissuto per qualche migliaio di anni con Homo Sapiens, la nostra specie, l’unica sopravvissuta, quella che ha preso il sopravvento. Pääbo e gli altri studiosi di “paleogenomica“, analizzando il Dna mitocondriale, hanno dimostrato le relazioni fra le tre specie e la presenza, nel patrimonio genetico degli umani attualmente viventi, di tracce significative del Dna delle due specie estinte (fra l’1 e il 4% nel caso dei Neanderthal, fino al 6% per i Denisova).

I Sapiens intrapresero circa settantamila anni fa una lunga migrazione a partire dall’Africa e incontrarono le altre popolazioni umane fra l’Europa, presidiata dai Neanderthal, e l’Asia, area d’elezione dei Denisova (i resti furono trovati in Siberia nel 2008).

L’incontro non fu del tutto conflittuale, o comunque vi furono incroci, testimoniati dagli studi sul genoma. Oggi sappiamo, per esempio, che i geni arcaici denisoviani che favoriscono la sopravvivenza in alta quota sono diffusi fra gli attuali tibetani, e che i geni neanderthaliani tipici degli europei influenzano la risposta immunitaria a molti tipi di infezione e anche la soglia di sensibilità al dolore.

Il Nobel a Pääbo, dicono gli esperti, era piuttosto annunciato, sia per l’importanza delle scoperte, sia per il loro impatto non solo scientifico ma anche culturale. Oggi sono a tutti più chiare le nostre origini africane e l’attitudine al mescolamento proprio della nostra specie... fin dalla notte dei tempi, come si usa dire in questi casi. È un Nobel annunciato anche per un altro motivo: Svante Pääbo è figlio di un altro Nobel per la medicina, il biochimico svedese Sune Karl Bergstrom, premiato nel 1982 con Bengt I. Samuelsson e John R. Vane per gli studi sulle prostaglandine. Svante è nato nel 1955 da una relazione extraconiugale e clandestina del professor Bergstrom con una signora estone, la chimica Karin Pääbo: è lei che ha trasmesso il cognome al figlio. Solo alla morte di Bergstrom – nel 2004 – la moglie legittima e il figlio nato nel matrimonio hanno saputo dell’esistenza di Svante, a quel punto già affermato nel mondo della scienza.

Claire Cameron spiega nelle premesse del suo romanzo che "i Neanderthal non tenevano traccia della paternità; la monogamia non veniva considerata una virtù, poiché, in una popolazione così ridotta, poteva costituire un ostacolo alla riproduzione". Naturalmente il nesso fra questa attitudine di una popolazione estinta da trentamila anni e il caso del doppio Nobel assegnato al professor Bergstrom e al figlio definito ieri “illegittimo“ dai mezzi di informazione (illegittimo per chi?, certo non per la logica dell’evoluzione) è solo una suggestione, ma in tutta questa vicenda, fra scienza, antropologia e risvolti umani di ogni passaggio, sembra correre un filo di continuità.

Un filo che dovrebbe spingerci a riflettere sulle nostre complesse origini e sulla responsabilità che abbiamo rispetto a quegli umani – i Neanderthal e i Denisova – che si sono estinti lasciando a noi Sapiens il testimone: in fondo viviamo anche per loro. Un motivo in più per lottare contro la minaccia ormai incombente della “sesta estinzione“, quella che metterebbe tristemente fine a una storia piena di incontri, di meticciato e di sorprese.

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