Giovedì 18 Aprile 2024

"Il mio Nobel, una vendetta e una ribellione"

Il discorso di accettazione di Annie Ernaux premiata oggi: "Scrivo per la mia razza di contadini, operai e bottegai. È una vittoria collettiva"

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di Chiara Di Clemente

"Sapevo che se ero con un ragazzo di 25 anni era per non trovarmi davanti continuamente il volto segnato di un uomo della mia età, quello del mio stesso invecchiamento. Di fronte a quello di A. anche il mio era un volto giovane. Gli uomini lo sapevano da sempre, non vedevo in nome di che cosa io me lo sarei dovuto negare". Ma l’illusione della giovinezza ritrovata dalla matura Annie Ernaux si trasforma presto nella radice di una profonda e dolorosa consapevolezza: "Al suo fianco la memoria mi sembrava infinita... Attraverso al sua stessa esistenza lui era la mia morte... Sarebbe stato sempre di più un ricordo subalterno. Sempre di più mi sembrava che avrei potuto accumulare esperienze, immagini, anni, senza mai sentire altro che la ripetizione stessa. Avevo l’impressione di essere eterna e morta al tempo stesso".

Dunque la storia con A. finisce, nel 2000: "Eravamo in autunno, l’ultimo del ventesimo secolo. Mi scoprivo felice di entrare sola e libera nel terzo millennio", scrive la Ernaux a conclusione del suo ultimo breve romanzo, Il ragazzo, appena uscito in Italia, come sempre per L’Orma. Terzo millennio che l’ha ricambiata di tanta fiducia assegnandole il Premio Nobel 2022 per la Letteratura che le sarà consegnato oggi. Un premio avuto da quella che lei ha definito martedì un’istituzione "per uomini, con un attaccamento maschilista alle tradizioni: in fondo il potere si trasmette così"; un premio che comunque "meglio sia stato dato a me che a Houellebecq – ha dichiarato ieri Annie in un’intervista a Parisien –, che ha idee totalmente reazionarie e antifemministe".

L’opposto delle sue, enunciate nel discorso di accettazione del Nobel letto mercoledì dalla Ernaux – 82 anni, capelli lunghi sciolti, voce ferma – all’Accademia di Stoccolma: l’idea che sta alla base della sua scrittura, ha spiegato, è "vendicare la sua razza".

"Questa frase è stata scritta sessant’anni fa nel mio diario personale – ha detto la Ernaux – “Scriverò per vendicare il mio popolo, j’écrirai pour venger ma race“. Faceva eco al grido di Rimbaud: “Sono di razza inferiore dall’eternità“. Avevo 22 anni. Studiavo lettere in un’università di provincia, tra ragazze e ragazzi per la maggior parte borghesi. Io pensavo, orgogliosamente e ingenuamente, che diventare scrittrice venendo da una stirpe di contadini senza terra, operai e bottegai, di persone disprezzate per le loro maniere, il loro accento, la loro mancanza di cultura, sarebbe bastato a riparare l’ingiustizia sociale della nascita. Che una vittoria individuale potesse cancellare secoli di dominazioni e di povertà".

Il percorso della vendetta è però stato tortuoso, il punto di svolta è arrivato solo nel momento in cui Annie si è resa conto di dover sostituire l’emancipazione dalle sue origini con l’accoglienza – spietata nello stile che rigettava lo “scrivere bene“, amplificata dall’uso perenne di una prima persona “universale“ – di esse: quando ha capito che doveva "scavare nell’indicibile nella memoria repressa e far luce su come viveva la mia gente".

E quando "mi è apparso evidente che dovevo ancorare il racconto della mia lacerazione sociale nella situazione che era stata la mia quando studiavo, quella, rivoltante, a cui lo Stato francese condannava sempre le donne, il ricorso all’aborto clandestino nelle mani di una mammana. E volevo descrivere tutto quello che è successo al mio corpo di ragazza, la scoperta del piacere, le mestruazioni. Così – era il ’74 –, senza che ne fossi consapevole, si delineava l’ambito in cui avrei collocato il mio lavoro di scrittura, un ambito al tempo stesso sociale e femminista. Vendicare la mia razza e vendicare il mio sesso da quel momento sarebbero stati tutt’uno".

"È così – prosegue Ernaux – che ho concepito il mio impegno nella scrittura, che non consiste nello scrivere “per“ una categoria di lettori, ma “partendo“ dalla mia esperienza di donna e di immigrata interna, dalla mia memoria, dal presente, dagli altri. Questo impegno sostenuto dalla convinzione, divenuta certezza, che un libro può contribuire a cambiare la vita personale, a spezzare la solitudine delle vessazioni e repressioni, a reinventarsi. Quando l’indicibile viene portato alla luce, è politico. Lo vediamo oggi con la rivolta di quelle donne che hanno trovato le parole per disgregare il potere maschile e si sono ribellate, come in Iran, contro la sua forma più violenta e più arcaica".

"Non considero il Nobel una vittoria individuale – dice ancora – ma, in un certo modo, una vittoria collettiva. Ne condivido la fierezza con tutti coloro che auspicano più libertà, più uguaglianza e più dignità per tutti gli esseri umani, di qualunque sesso, genere, pelle e cultura. Gli uomini e le donne che pensano alle generazioni a venire, alla salvaguardia di una Terra che la fame di profitto di un piccolo numero di individui continua a rendere sempre meno vivibile".

"Se ripenso – conclude – alla promessa fatta a vent’anni di vendicare la mia razza, non saprei dire se l’abbia realizzata. Ma fu da questa promessa, e dai miei antenati lavoratori e morti prima del tempo che ho avuto la forza e la rabbia, il desiderio e l’ambizione di dare loro un posto nella letteratura. Un insieme di voci che mi hanno dato accesso ad altri mondi e altri modi di essere: ribellarmi e cambiare, iscrivere la mia voce di donna e di disertore sociale in quello che ancora si presenta come uno spazio di emancipazione: la letteratura".

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