Mercoledì 24 Aprile 2024

Il maresciallo e il comico dell’Italia unita

Dalle gag e dalle barzellette alle fiction: sul piccolo schermo un talento unico pieno di umanità e voglia di sdrammatizzare

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di Piero Degli Antoni

Come al Cavaliere Nero, protagonista della tua forse più celebre barzelletta, anche a te, Gigi Proietti, nun je devi cag’ er ca’... Non glielo devi rompere perché non c’era nulla che ti si potesse rimproverare: non di essere troppo popolare, non di esserlo troppo poco, non di esserti prostituito alla tv, ma neanche di averla snobbata, non di aver scelto solo ruoli “intelliggenti” del cinema (che pure hai avuto), ma neppure di aver toccato il fondo di una comicità sboccata. Non ti si poteva rimproverare di non aver fatto teatro, musica, cinema, televisione, cabaret, scuola di recitazione, perché avevi fatto tutto questo e altro che di sicuro ci siamo dimenticati. È forse questa la ragione per cui eri amato da tutti, senza quasi.

Pur nella tua profonda romanità, ti adorava tutta Italia, perché della tua origine non avevi fatto una bandiera, ma avevi assunto quel bonario cinismo capitolino che in fondo ci invitava a non prendere niente sul serio.

Eri forse l’attore più popolare perché sapevi coniugare mirabilmente l’alto e il basso, senza strafare in un senso o nell’altro.

Avevi recitato con Carmelo Bene nella Cena delle beffe – certo non uno spettacolo da deflagrare dalle risate – ma avevi saputo anche calarti – senza snobismi – nei panni del protagonista di Febbre da cavallo. Sapevi recitare Shakespeare nel tuo Globe Theatre ma potevi anche irrompere sulla scena di un sonnolento Sanremo per esibirti in uno dei suoi, appunto, cavalli di battaglia: Nun me rompe er ca’ gustosa quanto perfida parodia dei melanconici chansonnier francesi in maglione nero a collo alto oppure produrti in una impudica satira della Signora delle camelie.

Gigi, finalmente abbiamo capito: ti amavamo perché non ti prendevi sul serio. Recitavi Amleto, magari, ma poi eri capace di raccontarci barzellette sublimi e corrive – recitavi nel film di Bolognini o Altman, ma poi ti accoppiavi con i Vanzina, insomma eri capace di liberarci da quell’eterno senso di colpa, e di noia, verso tutto ciò che aveva profumo di cultura. Per scacciarlo, non mettevi mano alla pistola ma all’ironia. E anche quando facevi su Raiuno (1996-2005) il Maresciallo Rocca, quel maresciallo che tutti vorremmo incontrare quando andiamo a sporgere denuncia oppure quando ci capita di commettere qualche marachella, al di là della sceneggiatura, delle battute, della scenografia, in qualche occhiata riuscivamo a cogliere un messaggio silenzioso: non prendetemi troppo sul serio.

All’inizio della carriera avevi esplorato i sentieri dell’avanguardia con Teatro 101 e Piera Degli Esposti, avevi sondato testi di misticismo culturale al limite dell’esoterismo di Picasso, Apollinaire, Gunther Grass o Gombrowicz. Ma non dovevi lavarti le mani dopo aver interpretato un ruolo come quello di Gigi in Casotto. Non per nulla, ci hanno riferito che negli ultimi giorni, prima di una Tac, ti eri rivolto al radiologo: "Dottore, je la faccio?" sublimando in tre parole l’elegante disincanto degli autentici signori.

Il pubblico ti ha amato, e ti ha amato a lungo vista la tua sterminata carriera, perché intuiva che eri uno di noi, nipote di un pecoraio che scriveva poesie, figlio di genitori modesti che sognavano il pezzo di carta e il posto fisso, rampollo di una piccola borghesia al quale però qualche dio bizzoso aveva regalato un talento inestimabile che avevi avuto il coraggio di coltivare.

Ma eri, appunto, rimasto uno di noi, senza i capricci irritanti di una star, tu che pure avresti potuto permettertele.

Una vita familiare ordinaria (una moglie, mai sposata, 58 anni fa, due figlie, pettegolezzi percepiti: zero) , nessuna incendiaria dichiarazione pubblica (se non un pudico, recentissimo "Sono di sinistra"), nessuna dichiarazione scandalosa, persino l’imbarazzo per esserti a lungo tinto i capelli. Farsi voler bene da tutti: in un Paese come l’Italia è stata la tua più riuscita mandrakata.

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