Il “lager“ di Arbe, quasi un vuoto di memoria

Allestito dall’esercito italiano nel 1942 sull’isola dalmata, vi morirono di stenti oltre 1.400 civili sloveni e croati. Un crimine impunito

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di Lorenzo Guadagnucci

I prigionieri lo chiamavano “Zmilja”, il Serpente, e lo temevano come si teme un sadico. Vincenzo Cuiuli, modenese, tenente colonnello dei carabinieri, fra 1942 e ‘43 fu il comandante del campo d’internamento per civili allestito dall’esercito italiano di occupazione nell’isola di Arbe (Rab in croato), davanti alla costa dalmata, a metà strada fra Fiume e Zara. Si racconta che Cuiuli fece sistemare un palo al centro del campo e ammonì gli internati: chi tenterà di fuggire sarà ucciso senza preavviso, chi disturberà sarà legato a questo palo e fustigato. Oggi Arbe è un’isola molto frequentata dai turisti, ma nei tredici mesi trascorsi fra il luglio 1942 e l’8 settembre 1943 fu il più duro, il più mortifero fra i molti campi di internamento creati durante la guerra dall’Italia fascista.

Arbe insomma è, o dovrebbe essere, un luogo della memoria, ossia della vergogna per un paese che volesse avere un rapporto onesto, non autoassolutorio, con la propria storia. Nell’isola furono rinchiuse migliaia di persone, per lo più slovene ma anche croate, dopo rastrellamenti eseguiti nelle zone d’occupazione, che furono teatro di eccidi, saccheggi, fucilazioni a opera dei militari italiani. Interi villaggi venivano svuotati dell’intera popolazione: ad Arbe arrivarono intere famiglie, dai bambini agli anziani. Per “accoglierli” fu inizialmente allestita un’improvvisata tendopoli, poi furono costruite delle baracche, ma le condizioni di vita quotidiana furono sempre tremende. L’esposizione al caldo estivo e al gelido inverno sferzato dalla bora era totale; scarseggiava l’acqua; le razioni di cibo erano inferiori al minimo vitale. Ci si ammalava, si moriva di stenti e di tubercolosi.

Lo storico Carlo Spartaco Capogreco, nel suo libro I campi del duce (Einaudi 2004), ricorda che le razioni alimentari fissate dal Regio Esercito erano istituzionalmente da fame – 877 calorie giornaliere per i “repressivi”, cioè gli internati sloveni e croati, 1030 per i “protettivi”, ad Arbe alcune centinaia di ebrei reclusi nella primavera-estate del ‘43 – e che nella pratica erano ulteriormente ridotte da ruberie e sadismi. La malnutrizione era endemica, le condizioni igieniche spaventose, come denunciarono a caldo sia la Croce rossa internazionale che i vescovi di Lubiana e Veglia in una relazione inviata al Vaticano.

Il generale Gastone Gambara, comandante dell’XI Corpo d’armata di stanza in Slovenia, postillò così il documento della Croce Rossa: "Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo d’ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo". Non ci sono cifre certe su quante persone persero la vita per gli stenti nel campo di Arbe: le vittime accertate, con nome e cognome, sono 1435, corrispondenti a un tasso di mortalità degli internati slavi pari al 19%, più del campo nazista di Buchenwald (15%), come fa notare Capogreco. Alcuni storici jugoslavi stimano cifre anche molto maggiori.

Il campo di Arbe fu liberato l’8 settembre 1943, quando si sparse la voce dell’armistizio e i militari italiani si consegnarono alla cellula partigiana clandestina costituita dagli internati. Cuiuli fu fatto prigioniero e trasferito sulla costa a Crikvenica, dove si suicidò in cella tagliandosi la gola (anche se un’altra versione accreditò la tesi che fu seviziato e ucciso), mentre un gruppo di internati formava una brigata partigiana “Rab” che combatté per la liberazione jugoslava.

Che resta oggi di Arbe, del campo d’internamento più feroce dell’Italia fascista? Restano un memoriale costruito nel ‘53 dalla Jugoslavia e un permanente senso di ingiustizia per i mancati processi agli ufficiali italiani per le atrocità compiute (non solo nei campi) durante la sporca guerra nei Balcani. In Italia la “memoria dei campi”, dei “nostri” campi, stenta ancora ad affermarsi: persiste una visione “vittimaria” della guerra e così non si scalfisce il mito degli italiani brava gente, del fascismo come regime tutto sommato benevolo. L’8 settembre scorso un gruppo di italiani, rappresentanti di associazioni partigiane e di ex deportati, ha partecipato nell’isola alla cerimonia ufficiale di ricordo della liberazione del campo, ma non c’erano autorità italiane.

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