
. La scrittrice Teresa Ciabatti, seconda al Premio Strega 2017 con La più amata e candidata nel 2021 con Sembrava bellezza
Sant’Agostino sostiene che la speranza ha due figli, e uno dei due è il coraggio. Al di là della storia da cui prende spunto, ovvero quella dell’intervista al superboss camorrista Giuseppe Misso che la scrittrice-giornalista protagonista del romanzo deve trasformare nella biografia del pluriomicida (150 i delitti accertati) ex capoclan del rione Sanità, nel nuovo libro di Teresa Ciabatti Donnaregina (Mondadori) è il coraggio uno dei temi cardine. Partendo dal malessere di una ragazzina, 13 anni, Camilla.
Teresa Ciabatti: ci sono due momenti particolarmente toccanti, in Donnaregina, ed entrambi riguardano Camilla. Uno è quello in cui al colloquio col prof che le segnala che la figlia ultimamente pare cupa e che le chiede se sia successo qualcosa, la madre risponde "niente", "noi siamo genitori attenti". Un altro è quello in cui Camilla, piangendo, dice al padre: "Non ce la faccio più". E lui: di cosa? E lei: "Vivere". Il malessere di Camilla che cos’è e perché diventa quasi centrale nel romanzo?
"Non quasi: per me è assolutamente centrale. È un romanzo che non parla di camorra o boss – quei temi sono degli strumenti – , ma di una figlia adolescente/preadolescente che sta molto male e di una madre. La madre all’inizio non vuole vedere questo malessere, poi il malessere esplode e lei è costretta a vederlo. Ed è lì che cambia il suo sguardo sul mondo, è lì che riesce finalmente a guardare l’altro. Non ha nemmeno tempo per domande del tipo “che madre sono stata? Dove ho sbagliato?“ perché si trova ad affrontare un’urgenza, e perché frequentando quei mondi – il reparto di neuropsichiatria dove viene ricoverata la figlia –, capisce che è un’epidemia che riguarda tanti ragazzini. È il tempo dell’emergenza, del dover intervenire subito. La scrittrice protagonista del libro, e anch’io, non sappiamo dare una risposta precisa al ‘perché’. Non so se sia un tempo nuovo, un malessere legato al Covid, ai social, o a un’infanzia e una giovinezza completamente diverse dalle generazioni precedenti. Siamo alle prese con la prima generazione che cresce con con questi strumenti, che ha vissuto il Covid come una guerra. E io penso che noi adulti non abbiamo risposto. Fino ai 18 anni non si può fare una diagnosi precisa per questi ragazzi, perché c’è di mezzo l’adolescenza. Tutti – tutti, insegnanti, dottori – vanno alla cieca, e tu genitore per primo non lo sai, cerchi di capire ogni giorno, ma devi solo intervenire, non c’è tempo per la riflessione".
È possibile paragonare il disinteresse politico e sociale per questa emergenza al disinteresse verso i più deboli con cui negli anni ha avuto modo di crescere la stessa camorra?
"Per me il centro del libro è proprio questo: vivere questo dolore e raccontarlo, porre il problema che esiste questa emergenza. Il primario del Bambin Gesù mi ha detto che arrivavano 150 ragazzini all’anno, e dal 2022 ne arrivano duemila. Siamo tutti responsabili per questa generazione, noi della nostra età. Ne è responsabile anche chi non ha figli toccati da tali problemi, o chi figli non ne ha. Ognuno è responsabile per ogni nuova futura generazione".
Lei scrive: i figli non sono come ce li siamo immaginati. Quale è la cosa più coraggiosa che si può fare per un figlio?
"Nel romanzo sembra che il coraggio sia la sfida spudorata della scrittrice protagonista al camorrista. Invece, l’unico gesto di vero coraggio di tutta la sua vita, lei lo fa alla fine. Con Camilla".
E – senza svelarlo del tutto – in che cosa consiste?
"Consiste nel mettersi nei panni del figlio, nel non ragionare in termini di “guarigione“, il mito della guarigione. Significa stare dietro alle paure del figlio, anche se sembrano assurde. Camilla ha paura della luce, e quando la madre lo capisce, per la prima volta sceglie di non sminuire la sua paura, di non imporle la sua visione, la sua idea di “normalità“. Riesce a guardare con gli occhi della ragazzina. Non giudica. La capisce. La accompagna".
Nel romanzo appare a un certo punto la speranza dell’interruzione dell’eredità di un “guasto“ – chiamiamolo così – matrilineare. È questa la speranza che dà vita al coraggio? È davvero possibile riuscire a spezzare la catena familiare del dolore?
"Sì, e accade quando il dolore non è più una riflessione, ma un’emergenza. L’emergenza è il tempo della reazione. Pensare all’ereditarietà è sterile e narcisista, una perdita di tempo, non serve, serve invece non far coincidere la propria storia con quella del figlio e riconoscere al figlio la sua unicità e la sua singolarità. Serve ricominciare da zero, riconoscere al figlio che lui è una storia nuova ed è una storia nuova tutta sua, che deve cominciare senza pesi. Serve uno sguardo nuovo sul mondo, che riconosca l’unicità e non le categorie o la familiarità, perché anche l’idea della familiarità è una gabbia, una trappola".
Quale è il coraggio della sua scrittura?
"Perseguire la mia ricerca stilistica ed estetica di una scrittura confidenziale persino “estrema“ – per ogni libro impiego anni di lavoro, prove e correzioni – nonostante le tante critiche; mi dicono: questi sono sfoghi, diari personali... Non è così, è tutto costruito perché sia così".
Il coraggio che chiede al suo lettore?
"Superare l’antipatia per i miei personaggi, che all’inizio possono essere respingenti".
Il coraggio di ciò che lei stessa, a 50 anni, chiama invecchiare?
"La mezza età, la vecchiaia è un’occasione: essere finalmente liberi dalla frenesia di dover dimostrare chissà cosa, dall’obbligo di competere. Io sono pigra; da ragazza mi dicevo: oddio, c’è tutto un mondo fuori, devo per forza uscire. Mi sforzavo, poi soffrivo. Col tempo capisci che il mondo è soprattutto interiore, e allora ti permetti di fare quello che senti. Se uno vuole andare più piano, finalmente può andare più piano".