
Il cibo prima forma di comunicazione. Dall’allattamento ai pranzi in famiglia
Il cibo parla. Può diventare un attivatore di dialogo nei momenti di difficoltà, può riappacificare screzi, ed è gioioso quando la tavola di famiglia diventa un po’ come quella tra amici. Tuttavia, non raramente si usa il momento della cena o del pranzo, magari domenicale, per “regolare i conti”. E allora, anche il nutrimento preparato con la cura più attenta, diventa il rappresentante di un dolore: una paziente aveva conati di vomito di fronte all’arrosto di maiale con le patate perché era il cibo servito durante una discussione tra i suoi genitori, alterco che portò, di lì a breve, a una loro separazione definitiva. La giovane divenne vegetariana. Ricordo un uomo che non poteva metter piede in un ristorante giapponese, né sentirne il profumo perché davanti a uno Shabu shabu era stato lasciato da quello che pensava il grande amore della sua vita. Una donna stava mangiando delle uova al tegamino quando ha avuto la notizia di un grave incidente occorso al suo compagno: per anni non ha potuto toccare quel piatto, pensando portasse male. Associamo al cibo qualità fantasmatiche, a volte anche magiche o superstiziose.
Il cibo, fin dall’alba della vita, non solo nutre, ma è un tramite di ciò che la madre sente, dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, delle sue fantasie sul piccolo. È a partire dalle scelte di allattamento che fa per il proprio neonato che la madre gli insegna la musica della loro relazione, con le sue pause, i ritardi, i silenzi, i forti e i fortissimo, ma soprattutto il ritmo del loro scambio. L’allattamento, infatti, è anche la trasmissione di un limite, di una scansione. Una madre, al contrario, potrebbe utilizzare l’allattamento come modo per mantenere una connessione intensa e ininterrotta con il bambino, evitando la separazione necessaria per lo sviluppo dell’autonomia del bambino e questo può impedire al bambino di formare una propria identità separata. Il cibo, di cui il latte è il prototipo, nutre o avvelena: e ciò non dipende dalla sua qualità intrinseca, ma da quello che trasmette.
Le dipendenze si instaurano molto presto nell’uomo, e quella da cibo non è diversa: il meccanismo cerebrale e psichico di funzionamento è uguale alle altre. Anche qui, occorre fare attenzione a che il sistema della ricompensa, che regola il piacere, non si disregoli nella reiterazione dell’esperienza, cosa che può produrre godimento eccessivo e dipendenza. Il cibo può veicolare desiderio solo se lo facciamo abitare da un limite, né troppo né troppo poco: misura che l’essere umano non riesce a tenere con facilità.
Il cibo è come l’amore, sia la penuria che l’eccesso ne distruggono la funzione e pervertono il desiderio in dipendenza: che sia dal troppo o dal niente non fa differenza. Il modo in cui una madre allatta il neonato e successivamente come i pasti vengono preparati e condivisi stabilisce un primo rapporto di ogni essere umano col desiderio. I limiti sono necessari per introdurre il bambino al mondo del desiderio strutturato: il cibo che desidera non è sempre il cibo che riceve o può avere. Questo introduce il bambino alla realtà che il desiderio è sempre parzialmente insoddisfatto.
In famiglia, simbolicamente, il cibo assume una funzione normativa: le regole familiari riguardo a cosa, come e quando si mangia istituiscono un ordine che inquadra il cibo all’interno di un sistema di valori condivisibili ma anche contestabili in adolescenza da parte dei figli. In questo senso, il cibo diventa un medium attraverso cui i genitori trasmettono valori culturali, etici e sociali. La dieta, le abitudini a tavola, le discussioni che emergono attorno al cibo rivelano le dinamiche di potere, le aspettative e i conflitti all’interno della famiglia.
Il cibo è un discorso che facciamo all’Altro: mangiare o non mangiare per un bambino significa, infatti, comunicare qualcosa a chi lo cura. Questi gesti possono essere interpretati come le prime manifestazioni del desiderio che si articola sempre in relazione all’Altro. Un bambino che rifiuta il cibo può esprimere non solo una preferenza gastronomica, ma anche una forma di resistenza alla madre o alla persona di cura. Mangiare o non mangiare diventa una dichiarazione, un modo per il bambino di posizionarsi nel mondo e di comunicare con gli altri.
Con il rifiuto del cibo l’anoressica dice: “vietato entrare”, e la bulimica, nel suo ingozzarsi e vomitare, mima la condizione di chi non riesce a fare a meno di incorporare l’altro ma a un certo punto ha necessità di fare spazio per respirare. L’obeso ha difficoltà nel limitare il godimento e potrebbe avere continuamente fame dell’Altro: replica l’eccesso con cui nell’infanzia lo hanno nutrito oppure si autoripara maldestramente se ha avuto penurie affettive e un’infanzia povera di attenzioni. Il cibo veicola significanti e relazioni che esorbitano di gran lunga dal suo valore nutritivo. Attraverso il cibo, il bambino apprende a negoziare il suo posto nel mondo, simbolico e immaginario, della famiglia, imparando che ogni atto in cui mangia o non mangia è un atto di comunicazione e di posizionamento rispetto al desiderio dell’Altro. Il cibo è un esperanto relazionale.