
Roma, 24 settembre 2023 – Gaia Tortora ha appena vinto il Premio Estense, con il suo libro autobiografico Testa alta, e avanti (Mondadori), racconto personale e doloroso a quarant’anni dall’arresto di suo padre Enzo (1928-1988), vittima di un clamoroso caso di “malagiustizia“. Il verdetto, dopo un vivace confronto fra la giuria tecnica, presideuta da Alberto Faustini, e la giuria popolare, è arrivato alla quinta votazione con 22 preferenze, al termine di un testa a testa con Paolo Borrometi e il suo Traditori. Come fango e depistaggio hanno segnato la storia italiana (Solferino). Gli altri finalisti erano Ezio Mauro con Cronache della Marcia su Roma (Feltrinelli) e Marcello Sorgi con Mura (Marsilio).
Gaia Tortora, possiamo dedicare questa vittoria alla Gaia quattordicenne, pronta a sostenere l’esame di terza media e che invece si è trovata ad affrontare ben altro?
"Sì, anche più piccola: è un modo per dirle che è stato difficile, ma che condividere la sua vita con gli altri è un mezzo per ripagarla di tutte le sofferenze che ha dovuto subire. Condividere con gli altri e con chi non ha modo di dire quello che posso dire io: attraverso di me, ho il dovere di restituire qualcosa anche a loro".
A un certo punto del testa a testa con Borrometi avete addirittura fatto “irruzione“ in sala, per chiedere l’ex aequo.
"Sì, il fotofinish con l’amico Paolo Borrometi, a cui voglio molto bene, è stato emozionante. La sua è un’opera preziosa. Sono due libri paralleli: anche se in modi diversi, raccontano storie che hanno segnato l’Italia e su cui bisognerebbe ancora dire molto. Per me, il risultato è ancora un ex aequo".
Che traccia ha lasciato questa storia nel suo percorso di donna e di giornalista?
"Una traccia indelebile su tutto. Ha condizionato ogni cosa: la crescita, le relazioni, anche affettive. Ultimamente, mi capita di fermarmi e di chiedermi come sarebbe stata la mia vita senza questo orrore. Ha presente il film Sliding Doors? Sono uscita di casa in un modo, sono tornata dopo due ore e la mia vita era completamente cambiata".
È cambiata la giustizia italiana dai tempi dell’arresto di suo padre?
"Per niente. Non è cambiato lo stato delle carceri, che è vergognoso. In questo momento, c’è un uomo in carcere da 33 anni, Beniamino Zuncheddu: è innocente e il suo rischia di essere il caso più lungo in assoluto per detenzione ingiustificata. La giustizia non è cambiata perché è lenta, perché c’è troppa capacità di mettere le persone in galera sulla carcerazione preventiva. Quando una persona è innocente, deve essere riconosciuto l’errore velocemente, per riconsegnarle la sua vita".
I ragazzi di oggi che possono ricavare dal suo libro?
"In realtà, tengo molto a due segmenti di lettori: i ragazzi delle scuole e le carceri. Continuo ad andare spesso nelle carceri, soprattutto nelle carceri minorili, dove molto c’è da recuperare. Vorrei che i ragazzi comprendessero attraverso questa storia che giudicare subito è sbagliato: vorrei che utilizzassero sempre e comunque la loro testa, per farsi una propria idea".
Jas Gawronski, che faceva parte della giuria tecnica, le ha chiesto scusa per aver dubitato di suo padre, il giorno dell’arresto. Cosa risponde?
"Fa piacere. Le scuse sono sempre ben accette, ovviamente quando vengono da persone per bene, come lo è Jas Gawronski. Quando provengono da altre parti, ovvero da personaggi che hanno fatto parte del massacro di mio padre, quando provengono da alcuni di quei ‘cialtroni’, come io li definisco, le scuse non sono accettate, perché in questi casi c’era dolo. Il dubbio, invece, fa parte della vita: c’è sempre tempo per tornare indietro".
Lei parla di "malagiustizia", ma anche di "mala-informazione". La stampa italiana ha imparato dalla storia di suo padre?
"Qualcuno sì, qualcuno no. Soprattutto nella stampa, mi duole ribadire che a volte è più semplice dividere l’opinione pubblica e la fetta da contendersi. Forcaioli, giustizialisti, garantisti: come se fosse una categoria da indossare. Non è così: quando parliamo di giustizia e della vita delle persone, più che la certezza della pena, sembra un paese in cui c’è soltanto la certezza della colpevolezza".
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