Mercoledì 24 Aprile 2024

Il caso Einstein: quel Nobel senza Relatività

Cent’anni fa il fisico ottenne il riconoscimento. Gli fu assegnato per il lavoro sugli effetti fotoelettrici, non per la sua teoria più famosa

Albert Einstein

Albert Einstein

Cento anni fa, anzi per la precisione cento anni e 34 giorni fa, il 2 aprile 1921, il Rotterdam arrivava a Hoboken, New Jersey. Di fronte al porto la statua della Libertà e sull’altra riva dell’Hudson i grattacieli di Manhattan.

Quando Albert Einstein comparve sulla passerella, al braccio di Elsa, la cugina sposata in seconde nozze, fu salutato da un’ovazione. Lo attendevano in cinquemila, oltre a giornalisti e fotografi. Mai vista una cosa del genere avrebbe scritto il New York Times. Einstein non era un attore di Hollywood, né avrebbe potuto con quel volto, quel fisico, quella zazzera. Non era un amico. Era un tedesco, un ex nemico. La guerra era finita tre anni prima. E nemmeno ancora aveva avuto il Nobel per la fisica. Gli sarebbe stato assegnato un paio di mesi dopo e consegnato l’anno successivo, nel 1922. Ritardo non casuale. Avrebbe dovuto far dimenticare l’assurda motivazione: premiato per gli ‘’effetti fotoelettrici’’ e non per la teoria della Relatività.

Pochi erano i colleghi che gli avevano creduto e avevano davvero compreso la sua apparentemente incomprensibile intuizione. Ma Einstein era già celebre.

Lo divenne all’improvviso, il 6 novembre 1919, quando alla Royal Astronomical Society di Londra il grande Sir Arthur Eddington annunciò: sì, Einstein ha ragione, la gravità va considerata la curvatura dello spazio-tempo, cioè il modo in cui la materia ‘’deforma’’ lo spazio-tempo e quest’ultimo, a sua volta, determina le modalità di movimento della materia al suo interno. Lo aveva accertato lui stesso, Sir Arthur, sei mesi prima. Aveva organizzato due spedizioni scientifiche a Sobral, in Brasile, e sull’isola di Principe, al largo della costa occidentale dell’Africa. Luoghi ideali per piazzare i più potenti telescopi dell’epoca e osservare le eclissi di sole. Risultato: dalla misurazione della deflessione della luce delle stelle dal campo gravitazionale del sole, usciva la prima, autorevole conferma. Quella stramba teoria era "la più sorprendente combinazione di penetrazione filosofica, intuizione fisica, abilità matematica". Così si esprimeva Max Born, altro Nobel. Era la ‘’teoria perfetta’’, una ‘’nuova fisica’’, ‘’un nuovo modo di guardare l’universo’’.

Chiara? Non tanto. Se faticavano a digerirla gli addetti ai lavori, figurarsi l’uomo della strada.

Speculazione puramente matematica, scriveva J.J. Thompson, presidente della stessa prestigiosa Royal Society. Per un altro suo membro, W.J.S. Lockyer, "la nuova equazione teorica era interessante, pur non ricoprendo alcun risvolto significativo per il nostro pianeta". "Troppo astratta e metafisica" per altri scienziati americani. "Idealistica" per i russi. Roba per astronomi, sentenziava la Princeton University da cui pure era pervenuto l’invito. La gente non ci avrebbe capito nulla. Ironie, sarcasmi, anche irritazione per tanta ostinazione.

Ed ecco invece, in quel giorno di aprile, gli applausi della folla mentre il Rotterdam attraccava a Hoboken e il grande risalto del New York Times all’uomo "che illuminava l’universo". Lo stesso Einstein, allora 42enne, ne fu sorpreso. Già durante la traversata atlantica aveva confidato a Elsa: "non ci crederai ma ho sentito il cameriere parlare della mia teoria a un altro cameriere...".

Inimmaginabile, ma – nota Dan Falk dello Smithsonian – una spiegazione c’era. L’Europa usciva da una guerra mondiale. Milioni di morti. Imperi caduti. Anche l’America, che aveva combattuto oltre oceano, ne era uscita traumatizzata. Il dopoguerra aveva bisogno di qualcosa o di qualcuno che lo risollevasse dalla depressione, che gli risparmiasse la sindrome del nazionalismo e le convulsioni della politica. Aveva bisogno di guardare in alto, alle stelle, all’universo. Questo qualcuno fu un tedesco, cittadino svizzero, poi americano, ebreo, la cui teoria aveva avuto l’effetto di un fulmine: una scarica elettrica così potente da riaccendere l’energia della resurrezione.

L’accoglienza fu ancora più calorosa nel 1933 quando Einstein tornò negli Stati Uniti. E ci rimase. Hitler era andato al potere proprio mentre lui era in viaggio. Ovviamente non rientrò.

Era un ebreo, un rinnegato, un pacifista che qualche anno più tardi scrisse a Franklin D. Roosevelt: "sappia presidente che la Germania nazionalsocialista sta lavorando all’arma atomica". Monito prezioso. Einstein può essere considerato l’anticipatore del progetto Manhattan. Poi a guerra finita sarebbe tornato ad essere un pacifista a tutto tondo.

Come lo era Elsa. Per lei, prima del suo secondo matrimonio, aveva imposto alla moglie Mileva umilianti condizioni.

Meritano un cenno:

- pulirgli i vestiti,

- tre pasti da servire nella sua stanza,

- non parlare se non interrogata,

- nessuna intimità.

In cambio Mileva avrebbe avuto il premio del Nobel e un appannaggio. Divorziò da lei solo quando gli fece comodo, nel 1918.

Anche i geni hanno le loro meschinità.

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