Mercoledì 24 Aprile 2024

Il campo dei fascisti. Anzi, degli intellettuali

A Hereford in Texas furono reclusi tremila militari italiani catturati nel ’43 e “non cooperanti“. Fra loro Burri, Berto e altri artisti e scrittori

di Lorenzo Guadagnucci

È passato alla storia come il “campo dei fascisti“ (Fascists’ Criminal Camp), ma sarebbe stato meglio considerarlo il “campo degli intellettuali“. Era in Texas, a Hereford, un luogo sperduto nelle mappe e ospitò dentro un recinto di filo spinato militari italiani fatti prigionieri per lo più in Nord Africa nella primavera del ’43, quando l’esercito del Duce e del re crollò miseramente insieme con i progetti di conquista. Si ritrovarono a Hereford circa tremila militari italiani, uniti da una scelta compiuta in prigionia: il no alla proposta di collaborazione (da non combattenti) offerta dagli Stati Uniti. Fra loro, ecco la cosa più singolare, c’erano personaggi di ragguardevole spessore culturale – giornalisti, pittori, musicisti, professori – che fecero del campo un’insolita fucina di idee e di talenti, per poi affermarsi nell’Italia del dopoguerra.

E non erano tutti fascisti, a dispetto delle semplificazioni delle autorità militari statunitensi. Fra gli ufficiali detenuti, per fare qualche nome, vi erano Alberto Burri, destinato alla celebrità internazione come esponente dell’arte informale; Giuseppe Berto, scrittore e Premio Campiello nel ’64 con Il male oscuro; Dante Troisi, magistrato e scrittore, autore nel 1955 di un esplosivo Diario di un giudice, che gli costò un procedimento disciplinare; Gaetano Tumiati, giornalista, Premio Campiello anche lui (nel ’76 con Il busto di gesso). E ancora i disegnatori e pittori Giovanni Rizzoni, Dino Gambetti, Ervardo Fioravanti; i giornalisti Vincenzo Buonassisi (quello dell’Almanacco del giorno dopo e di Ci vediamo alle dieci in tv), Armando Boscolo, Giosuè Ravaglioli; il musicista Mario Medici, il latinista Augusto Marinoni, il matematico Mario Baldassarri, il giurista Aurelio Manzoni, avvocato milanese appassionato di ciclismo cui si deve un’attenta cura della memoria dei prigionieri di Hereford.

Con tanto sapere concentrato in un unico luogo e con tanto tempo a disposizione (gli ufficiali non erano tenuti a lavorare, i soldati sì), il campo diventò una sorta di libera università e anche un atelier artistico. Nella primavera del ’45 a Hereford si tenevano corsi di livello universitario in otto materie e circolavano numerose riviste manoscritte (tutte in unica copia, passavano di mano in mano), fra le altre un giornale murale con un nome ironico: Filospinato...

Hereford fu una palestra di vita decisiva per molti dei prigionieri. Proprio lì Alberto Burri decise di cambiare mestiere: non più medico, ma pittore a tempo pieno. "Capii che io ’dovevo’ fare il pittore. I quadri fatti allora – disse tempo dopo, ormai artista affermato – sono per me validi come le mie ultime opere, né più né meno in termini di intensità pittorica". Alla mostra organizzata dentro il campo nell’agosto ’45 Burri presentò Texas, un paesaggio locale oltre il filo spinato, e una scacchiera con le pedine realizzate utilizzando un rasoio. Anche per Berto Hereford fu fatale: "Sono convinto – ha scritto – che, se non mi fosse capitato di finire in un campo di concentramento, non sarei riuscito a scrivere un romanzo". E Gaetano Tumiati tracciava così il suo bilancio: "Quei due anni e mezzo di prigionia sono stati i più formativi della mia vita".

Gli ufficiali italiani di Hereford, pur “non collaboratori“, non erano tutti fascisti, come rimarca Flavio Giovanni Conti nella sua monografia Hereford, appena uscita per Il Mulino. Solo una parte di loro disse no per fedeltà al Duce. I più si ritenevano obbligati a rispettare la Convenzione di Ginevra – gli Alleati erano ancora formalmente dei nemici – e non erano convinti del quadro normativo della proposta statunitense, in assenza, oltretutto, di chiare indicazioni dal governo di Roma. Qualcuno disse no per reazione alla "cupidigia di servilismo" (parole di Manzoni) di generali e alti ufficiali, tutti immediatamente “collaboratori“. Fra i tremila di Hereford, insomma, esisteva un certo pluralismo culturale e politico.

Si formò una componente di sinistra anche fra gli ufficiali: il gruppo detto dei “collettivisti“, guidato dal carismatico Ravaglioli e frequentato sia da Berto sia da Troisi, fra vari altri. Uno dei prigionieri, nel dopoguerra, diventò deputato comunista (Giovanni Dello Jacovo), anche se fu la destra missina ad annoverare il maggior numero di parlamentari con un passato a Hereford (Nino de Totto, Roberto Mieville, Giovanni Roberti, Giuseppe Niccolai).

La prigionia degli italiani in Texas fu per molti versi memorabile, ma anche dura. Le pressioni a firmare la collaborazione non mancarono e ci fu un clamoroso episodio di pestaggio dei detenuti. A guerra in Europa finita, fu avviata anche una sorta di punizione collettiva: il taglio drastico del cibo. I prigionieri per mesi fecero letteralmente la fame e dovette intervenire l’ambasciata italiana. Burri perse sette chili, più o meno come Troisi; Berto una decina, Tumiati tredici, Medici quasi venti...

I prigionieri di Hereford rientrarono in Italia nel febbraio del ’46 e la trovarono più prostrata del previsto: "Il digiuno e le bastonature – scrisse Dante Troisi, parlando dei suoi concittadini e pensando alle vessazioni subite in Texas – erano davvero, sinceramente, senza importanza rispetto alla loro vita".

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