Venerdì 19 Aprile 2024

I reportage di Levi, che non si fermò a Eboli

I viaggi in Sicilia e Sardegna negli anni Cinquanta: lo scrittore e pittore si fa giornalista per raccontare le classi subalterne

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di Lorenzo Guadagnucci

Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, è una donna di cinquant’anni, "di una bellezza dura, asciugata, violenta, opaca come una pietra, spietata, apparentemente disumana". Così Carlo Levi descrive la madre del giovane sindacalista socialista che aveva guidato la rivolta dei braccianti contro il latifondo, ucciso in una strada di campagna a Sciara (Palermo) il 16 maggio 1955. Francesca, scrive ancora Levi, "parla, racconta, ragiona, discute, accusa, rapidissima e precisa, alternando il dialetto e l’italiano (...) Le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre. Parla con una profonda assoluta sicurezza, come chi ha raggiunto d’improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata, è la Giustizia". Sono passi di rara intensità, parte di un libro che raccoglie i resoconti di “tre giorni in Sicilia”: Le parole sono pietre, pubblicato da Einaudi nel 1955.

Levi a quel tempo è già un autore affermato grazie a Cristo si è fermato a Eboli, scritto durante la guerra nelle difficili giornate della clandestinità a Firenze, e pubblicato a guerra finita, nel ‘45, e poi tradotto in molte lingue. Il Cristo è un romanzo, ma un romanzo-verità, la prima grande inchiesta sul Sud Italia, un libro che non ha perso la sua potenza.

In Sicilia Levi arriva da scrittore che si fa giornalista, il percorso inverso a quello più spesso battuto, con giornalisti che si fanno, o si improvvisano scrittori. Compie i suoi viaggi fra il ‘52 e il ‘55, nel pieno delle lotte dei braccianti e in un’epoca in cui il dominio della mafia non è oggetto in Italia della minima attenzione. Il racconto dell’accoglienza riservata nel paese di Isnello a Vincenzo “Vincent“ Impellitteri, neosindaco di New York, figlio di emigranti, è un capolavoro, un misto di realismo e di espressionismo. L’ammirazione, la devozione quasi religiosa, la smania degli abitanti di dirsi parenti del concittadino tanto famoso, sono per Levi la rivelazione di un modo quasi metafisico di vivere e rappresentarsi. Il “figlio del calzolaio”, quale Impellitteri era, "poteva ben prendere – scrive Levi – il posto del Figlio del Falegname. Cominciò dicendo che era ‘allegro’ di tornare, come sindaco di New York, nella città dell sua ‘natività’". Un’imprecisione linguistica, ma anche "una profonda intuizione, egli disse allora e sempre natività anziché nascita, e con questo accettò senza accorgersi il mondo della favola, e ci si inoltrò definitivamente".

Ma è una favola che non cela la realtà: a fine giornata, sulla via del ritorno in automobile a Palermo, Levi viaggia “con le autorità” e il discorso, d’improvviso, cade sulla mafia: "Il più importante dei compagni di viaggio, vice sindaco, credo, di Palermo, mi disse: ‘Lei ci crede a quelle fandonie? La mafia non esiste, è una leggenda. La mafia non c’è: se ci fosse sarebbe una bella cosa, sarei mafioso anch’io".

Levi viaggia anche in Sardegna, isola all’epoca ancora misteriosa, e ne trae un libro – Tutto il miele è finito, Einaudi – che include 17 racconti-reportage. Durante i viaggi compiuti nel ‘52 e poi dieci anni dopo, Levi "per quanto ne sappiamo non dipinge", scrive Giorgina Bertolino nel catalogo (pubblicato da Allemandi) della grande mostra in corso a Museo Man di Nuoro, di cui è curatrice. L’esposizione documenta i viaggi di Levi in Sardegna ma ospita anche quadri slegati dall’isola, nella convinzione – che era di Carlo Ludovico Ragghianti, critico d’arte e amico di Carlo – che per lui si debba parlare di "bilinguismo", senza separare scrittura e pittura.

Levi comincia a raccontare la Sardegna da un nuraghe e coglierà nell’isola – a Cagliari sulle orme D. H. Lawrence, nell’enigmatica Barbagia, fra i minatori – il lato arcaico e la profondità storica della vita presente, legata a codici ancestrali meritevoli d’essere studiati e compresi, anziché bollati di anacronismo. Registra la difficile convivenza con uno stato vissuto come straniero; scrive per esempio arrivando a Orgosolo, all’indomani di fatti di sangue: "Il paese era occupato dalla forza armata, come in una spedizione coloniale". Per Levi le parole dei reportage non erano pietre, bensì un tramite verso la compresione profonda del nostro Meridione e delle sue classi subalterne, cui dedicò buona parte delle sue cospicue energie intellettuali e politiche. Dopo il Cristo, aveva scelto di non fermarsi a Eboli...

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