Giovedì 18 Aprile 2024

"Ho fatto la guerra e vi racconto chi era Rabin"

Il regista Amos Gitai: ero un pilota nel conflitto del Kippur, mi salvai per miracolo e lui fu il solo a indicare una via concreta per la convivenza di Israele e Palestina

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di Silvio Danese

Suo padre Munio Weinraub, architetto del movimento Bauhaus, ebreo accusato nel ’33 di “tradimento del popolo tedesco” e incarcerato, espulso dalla Germania emigrò in Palestina e si trasferì ad Haifa. Figlio di architetto e con anni di studi universitari di architettura alle spalle, "sono costruttore di film", dice Amos Gitai, nato ad Haifa 71 anni fa, emigrato a Parigi, ormai autore di una vasta e fondamentale opera che interroga e racconta Israele. Con un perno tragico e una missione: non abbandonare la memoria, motivi e conseguenze, dell’assassinio di Yitzhak Rabin, il premier laburista di Israele ucciso nel 1995. In ordine cronologico, i sei documentari di Give peace a chance (1994), quando il neo primo ministro vinse il Nobel per la Pace con il capo del governo palestinese Yasser Arafat, il documentario The arena of murder (1996), memoriale sul delitto e la figura del presidente, poi il film Rabin, the last day (2015), a metà tra ricostruzione in fiction e documentario, lo spettacolo Rabin, cronaca di un assassinio annunciato ad Avignone (2016), la mostra passata anche al Maxxi di Roma Rabin, cronaca di un assassinio annunciato e i 30.000 documenti depositati alla Biblioteque Nationale. Ora, il libro-summa appena uscito in Francia e subito pubblicato in Italia da Elisabetta Sgarbi: Yitzah Rabin, Cronache di un assassinio (La Nave di Teseo). Nelle sue parole, "questa è una stategia artistica".

Amos Gitai, di solito si fa strategia per una battaglia. Qual era ieri, qual è oggi?

"Non ho mai studiato un’ora di cinema prima di decidere di fare cinema. Dunque cos’è successo per arrivare a tutto questo? Ero pilota di elicottero nella guerra dello Yom Kippur. Era il quinto giorno di guerra, ed era anche il mio compleanno. Stavamo andando a recuperare dei feriti. Un missile siriano tagliò la testa al secondo pilota, di fianco a me. Lui morto, io vivo, ho capito che ero vivo perché avrei dovuto raccontrare quella e altre storie. Questa era, ed è, la mia battaglia. Ma non è solo questo".

Cos’altro?

"Quando faccio un film, una mostra o un libro, la cosa più importante è il punto di vista, che non è né la dottrina, né il documento. Non è il microfono, per capirci. È un modo di pensare e di evolvere, un modo che coinvolge altre persone. Come Rossellini, Visconti. La strategia è entrare nella pelle del tuo spettatore sapendo che non è un consumatore, ma un interprete".

Lei dice che Rabin fu vittima di un no violento a una rappresentazione della storia. Quale?

"Rabin aveva la visione esatta di un modus vivendi, tra Israele e la Palestina. Nel suo punto di vista nessuno è illegittimo. Questo non era, e non è, popolare. C’era una certa situazione, il passato, le guerre, il terrorismo, la povertà, e Rabin dice: no, così no, discutiamo tutto. Dobbiamo trovare quel modus vivendi accettato anche dalla Palestina, la condivisione delle risorse, eccetera. Questa è la differenza epocale rispetto agli altri leader. E questo è ciò che penso deve essere riportato alla memoria della realtà".

Pensando al "Piano del secolo" firmato due anni fa da Netanyahu e Trump, quali prospettive, oggi, con Bennet?

"La cosa più importante è che dopo 25 anni Netanyahu ha lasciato. Perché? Come Trump, Bolsonaro, Berlusconi e altri, ciascuno a suo modo, Nethanyahu ha distrutto qualcosa della sua nazione. Le cose cambiano non solo con danaro o azioni militari, ma con le idee. Una cosa che Israele non vuole capire è che la Palestina non se ne va. Quello che la Palestina non capisce è che Israele non andrà via. Insieme non vogliono capire che non è una lotta tra gente angelica e gente bastarda. Molti sono angelici e bastardi, e non nelle stesse proporzioni, perché è un fatto che Israele ha occupato la Palestina. Dunque, cercare la via, tornare a Rabin".

Un delitto, e la storia cambia: Kennedy, Rabin, Aldo Moro. Un tema anche nelle arti: perché?

"È un impegno con la realtà, un impegno civile, e non naturalistico. Se prendiamo Michelangelo, Dante, Shakespeare, Guernica o l’Otello di Rossini, che ho messo in scena a Napoli, ebbene in ciascuno c’è la capacità di cogliere, a partire dalla forma, dove la realtà cambia per un gesto: l’arte ci dice molte cose di quel gesto".

Decenni di lavoro fin qui, la sua non è forse un’offerta di pace dell’arte alla politica?

"Dovrei chiederlo ad Amos Gitai... E torniamo a mettere sul piatto la questione della memoria, per dire: la memoria non è soltanto sentimentale, la memoria è una proposta".

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